David o non David? Questo era il dilemma nella Firenze del Cinquecento.

Non l’elegante e possente David di Michelangelo, suprema personificazione delle essenziali virtù civiche del Rinascimento, ovvero la Fierezza e la Fortezza, doveva salutare i fiorentini, nei primi anni del Cinquecento, dall’arengario di Palazzo Vecchio, ma un minaccioso e corpulento Ercole, con tanto di clava in pugno, scolpito da Leonardo da Vinci.

Ebbene sì, miei diletti Lettori, quello che stiamo sondando è uno dei “misteri” più intriganti ed affascinanti, di recente acquisizione, peraltro, che investano la statua, in assoluto, più amata e più venerata, esistente su scala mondiale. L’eclatante scoperta si deve allo scrupolo indagativo di Carlo Pedretti, leonardista di fama internazionale, con più lauree honoris causa e un’imponente produzione scientifica sul talento incommensurabile del da Vinci. A conferma della sua tesi, un disegno su un foglio che mostra, sul recto, Ercole, visto frontalmente e, sul verso, esattamente combaciante, il semidio raffigurato di spalle. A fianco della figura principale, compaiono alcuni bozzetti, ineccepibili nella loro precisione descrittiva, di studio sui flussi d’acqua e su macchinari per modificarne il corso, così come Leonardo era solito eseguire, lavorando, contemporaneamente, a più idee diverse ed, ugualmente avvincenti.

Il disegno, d’inestimabile valore documentaristico oltre che artistico come potete immaginare, fu acquistato nel 1878 da una prestigiosa famiglia francese e, tenuto celato, per più di un secolo, a studiosi e al pubblico. Fino al 5 luglio del 2000, quando il martelletto della casa d’aste Sotheby’s lo ha battuto ed assegnato per 2 milioni di dollari. Ad aggiudicarsi il bozzetto, che lo stesso Pedretti, assieme a Giulio Bora, ha autenticato ed attribuito a Leonardo, un anonimo compratore che ha agito attraverso una fondazione europea (sospetto legittimo, a posteriori, miei perspicaci Amici, che si tratti dell’ennesima acquisizione di matrice elvetica?!)

Leonardo, quindi, “usurpato” da Michelangelo nell’adorata Firenze cinquecentesca, ovvero la grazia misurata del tocco vinciano “soppiantata” dalla tensione drammatica del furore buonarrotiano. In realtà, la gestazione quadriennale del David (viene scolpito tra il 1501 e il 1504) e la sua alterna collocazione, dapprima, fino al 1873, nella piazza della Signoria, a fianco della porta di Palazzo Vecchio, poi nelle Gallerie dell’Accademia, come sede attuale, sono accompagnate e determinate da eventi del tutto fortuiti ed imprevedibili, per certi aspetti, ancora oscuri.

La nascita della statua più popolare al mondo, di quei quattro metri e dieci di purezza lapidea nel superbo Marmo bianco di Carrara, di quella figura apollinea che vanta il maggior numero di riproduzioni e, che attira ogni anno oltre un milione di visitatori, pronti a varcare in estatica ammirazione la soglia della Tribuna dell’Accademia, è frutto del caso e delle circostanze storiche, intrecciatesi alla perfezione. Carlo Pedretti ha ricostruito la vicenda, con alla mano documenti antichi, in parte illuminanti, in parte ancora incompleti su alcuni elementi e nodi cruciali.

Secondo le sue puntuali valutazioni, nel 1500 Firenze era una repubblica, con a capo il gonfaloniere a vita, Pier Soderini. Propio lui, quell’anno, affida a Leonardo il compito di realizzare un’opera, che potesse testimoniare l’orgoglio, la libertà, il primato umaninistico-culturale e le virtù civiche di Firenze. L’idea cade su Ercole e, per plasmare la statua, si pensa di adoperare un massiccio blocco di marmo acquistato, in passato, per gli ornamenti della cattedrale fiorentina. Della facciata del duomo avrebbe dovuto occuparsi Agostino di Duccio, ma il progetto era naufragato e il blocco era rimasto adagiato nella piazza, per anni.

Leonardo aveva già lavorato in Palazzo Vecchio e del nuovo incarico esitsono tracce oggettive di riferimento, negli archivi storici della capitale medicea. A questo punto, il mistero s’infittisce e lo stesso Pedretti si pone domende pressanti, che forse in futuro, con ulteriori analisi, troveranno risposte appaganti e definitive. In quell’inizio estate del 1501, ufficiosamente, l’incarico, dopo la defezione di Agostino, pare toccare al da Vinci; in realtà, accade qualcosa, di cui s’ignora l’entità fattuale e l’origine esatta della committenza ma, tant’è, che nel giro di due mesi, il 14 agosto del 1501, ad aggiudicarsi regolare appalto per l’opera è il giovane Michelangelo.

Un Buonarroti eccitato ed appassionato che realizza la summa, il vertice della sua creatività scultorea, in un’opera spettacolare, dalla decisa definizione plastica e dalla marcata individuazione somatica: il magnifico David, figlio del Cinquecento, è corpo sublime di Uomo moderno che pulsa di vita nel suo doppio dinamismo, fisico e morale; è l’ideale della Creatura dominatrice del proprio destino, perché animata da una forte ispirazione spirituale, che trova corrispondenza perfetta nella compiutezza e nella prestanza plastica di membra ed espressioni, plasmate in un involucro marmoreo rigorosissimo e, di una bellezza esaltante. Il capolavoro è il frutto più prelibato dell’arte michelangiolesca dei primi anni, già influenzata dai temi religiosi, ma ancora lontana da quella visone volumetrica e dal concetto di figura umana ripiegata, che caratterizzerà i suoi lavori successivi.

Pedretti, dalla biblioteca della sua villa a Vinci, già sede di una fondazione internazionale con uffici a Los Angeles, ripesca un’infinità di testimonianze del tempo, che illustrano il vivace e talora acceso intreccio di rapporti tra i due Giganti dell’arte italiana: inevitabile l’accostamento, riduttiva la presunta competizione. Reciproco rispetto serpeggia di fondo, soprattutto da parte del Buonarroti, più giovane di 25 anni, ma anche di distaccata concorrenza. Vivono a Firenze nello stesso periodo ed entrambi lavorano per il Palazzo della Signoria. Una “cronica” del 1540, per esempio, narra di un incontro tra i due davanti a Palazzo Spini Feroni, dove un terzo interlocutore, che discuteva con Leonardo della “Commedia” di Dante, chiede un parere a Michelangelo. Egli risponde con altera condiscendenza, allontanandosi, dopo aver lanciato una frecciatina verbale verso Leonardo per il monumento equestre a Francesco Sforza, in terra lombarda, con testuale espressione: “Rispondi ben tu, che facesti un cavallo a Milano e che non lo sapesti gettare nel bronzo. E che t’era creduto da quei capponi di milanesi?” Un filo di sincero rammarico affiora dietro un’apparente aria di sfida: in realtà, Michelangelo non tollera che tanto talento del Conterraneo sia andato sprecato per la cecità dei milanesi.

Al di là di ogni rivalità, in cuor suo Leonardo non rinunciò mai al desiderio di dar forma al suo Ercole per Palazzo Vecchio, come dimostrano altri studi approfonditi ed altri disegni dettagliati esposti e, a disposizione del pubblico, nella Biblioteca Reale di Torino. In cuor mio, miei devoti Intenditori d’arte e di verità, credo di aver sanato qualsiasi ipotesi di scontro tra Titani, sorretta da una convinzione profonda: entrambi personificano e rappresentano, in maniera complementare e perfetta, lo specchio culturale e lo spirito ideale del loro tempo. Giacché per capire l’essenza del Rinascimento non servono testi, parole e libri ricchi d’interpretazioni: il senso più eloquente di quell’età d’oro sta tutto nel sorriso abbozzato ed ipnotico della Monna Lisa e nello sguardo accigliato e fiero del David.

Abbandonatevi, dunque, con trasporto sincero, a quelle visioni così straordinarie e il Rinascimento non avrà, per i vostri cuori e per i vostri sensi, più alcun segreto. Un grazie, senza riserve, all’Ingegno e al Genio irraggiungibili di questa Coppia sensazionale di Signori dell’arte di tutti i tempi. Un “benritrovati” calorosissimo agli innumerevoli estimatori e visitatori del Sito di Patron Beppe, Signore della Fotografia! Vostra Elena P.

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