Il Maestro fotografico dell’istante magico: Monsieur Henry Cartier Bresson.

Il Nikonista caravaggesco, alias Patron Beppe, che con i suoi scatti sa fissare come nessun altro, dai tempi della Magnum, uomini, paesaggi, natura, stati d’animo nella loro verità quotidiana, sostiene sempre che, più della razionalità ci vuole intuizione nell’arte fotografica, ossia saper guardare conta di più di mettersi a riflettere, altrimenti l’attimo fugge via e, con esso tutta la sua potenza estetica ed artistica. Ebbene, con Beppe ci troviamo nello stesso territorio dei fondatori della Magnum, dalle parti di Robert Capa, di David Chim Seymour e soprattutto di Henry Cartier Bresson (sopra in foto), ovvero nel territorio del Talento scritto nei cromosomi, capace di trasformare in capolavori la sfuggente lievità dell’istante e di renderla eterna ed universale.

Il Nikonista collumbertese e il Leicano parigino, alias Henry, si esprimono sulla stessa lunghezza d’onda: si muovono con passo furtivo, timidi ma potentissimi nella creatività; s’immergono fino al collo, senza confini e senza costrizioni, nel flusso del divenire; dispongono di buona mira, di capacità osservativa fuori dal comune e di velocità d’esecuzione straordinaria, senza rivali. C’è un mito in ogni biografia e in ogni vissuto; in Beppe è quella voglia inesauribile di cogliere il dettaglio e l’attimo, perfetto sia nella profondità che nella superficie; tensione perenne verso l’espressione perfetta, nutrita da una curiosità e da una inquietudine che si autoalimentano nel talento, sempre in crescendo. In Henry è quello che, del resto, lui stesso ha avallato molte volte, l’idea che ogni sua immagine sia “rapita”, sottratta, colta all’insaputa di coloro che recitano, negli spazi delle strade, nei luoghi del mondo e, realizzata, senza dubbio dall’occhio più giusto che la fotografia abbia mai rivelato.

Di HBC (come veniva simpaticamente chiamato dagli amici) si è detto che è sinonimo stesso della parola fotografia. Nato nel 1908 in Francia, a Chanteloup, una ventina di chilometri da Parigi, si appassiona presto alla pittura, frequenta i surrealisti. Affascinato da un’immagine di Muncaksi, tre ragazzi neri che corrono in silhoutte (mitica la sua frase di commento “Si può davvero fare questo con una macchina fotografica? Che forza plastica, che senso della vita: il bianco, il nero, la schiuma del mare!! Posso, debbo provarci!!!”), si compra una Leica e parte, poco più che ventenne, per un viaggio in Italia, Francia, Spagna, Messico, dove realizza scatti formalmente ineccepibili, lontane dal sentimentalismo: uno dei momenti più alti della storia dell’arte fotografica del XX secolo. Incontra negli anni Quaranta Robert Capa e David Chim Seymour e con loro nel 1947 fonda la Magnum Photos, la più importante agenzia fotografica al mondo. “Siamo un gruppo di avventurieri mossi da un’etica” soleva dire HCB. Da più di vent’anni, prima di andarsene per sempre nel 2004, si dedicava esclusivamente al disegno. Le fotografie sono disegni istantanei, diceva e, il disegno, una questione di mira e di accelerazione.

Le sue opere, così lontane da ogni artifizio, hanno fatto conoscere la potenza letteraria della fotografia. Cartier Bresson elimina il peso e la posa: niente premeditazione, niente costruzione e meno ancora pregiudizio. Il fotografo si muove con il suo istinto nei momenti sospesi tra le azioni: sufficientemente leggero, sufficientemente sottile da evitare i luoghi, i momenti in cui la vita si condensa e si esprime in modo troppo forte e troppo evidente. Lui che non si è mai considerato un giornalista, un fotoreporter, vanta nel suo archivio molte immagini che hanno fatto la storia della cronaca mondiale. Questo rende unica la sua Arte: una visione d’autore poetica, personale, costante, rivolta a fatti della vita, del mondo e che, con la giusta distanza racconta molto più di mille articoli giornalistici, risolve bisogni sconosciuti, interpreta mentre documenta.

Integro di fronte ai condizionamenti esterni e capace di un assoluto controllo della qualità espressiva ed artistica, come ben documentano le sue innumerevoli foto in bianco e nero, inimitabili, tragiche o grottesche, umane ed infinite, come la pietà e il dolore di tutte le vicende e le guerre che egli visse, prima fra tutte quella di Spagna, l’ultima occasione della democrazia per far da baluardo alla dittatura. Splendida la sua Parigi, ben diversa da quella ripresa in lunghe pose agli inizi del secolo da Atget, una Parigi come sospesa nel tempo, ma densa di persone, di ritratti, di dialoghi, di affetti.

Per Henry la fotografia era essenzialmente vita e libertà di pensiero, senza strutture, sovrastrutture; era avventura. Era solito ripetere “E quando ancora mi dico: guarda che bella foto da fare, è già troppo tardi”. Aveva una voce dolce, che talora si trasformava in un sospiro intessuto di parole. Poi c’erano giorni in cui era arrabbiato anche con la fotografia. “E’ una forma di stupro, diceva, ci s’impossessa sempre di qualcosa”. Non voleva ammettere che i suoi soffici click (una Leica è meravigliosamente silenziosa) erano spirituali. Andava spesso con la mente a incontrare i suoi amici, specie quelli che con lui fondarono la Magnum. Riviveva la presenza sonora di Robert Capa che saltòsu una bomba in Indovina nel maggio 1954, aveva la macchina fotografica stretta nella mano sinistra e dietro di lui aveva abbandonato un thermos pieno di cognac. E poi Seymour, detto “Chim”, che aveva lo scatto meticoloso e morì a Suez, nel 1956, dilaniato dalla mitraglia. Era rimasto solo con la sua Leica, Henry, il Mozart della fotografia, il predatore dell’istante decisivo, appunto il momento magico in cui tutto si fonde in una microscintilla temporale, la scena, l’obiettivo, l’artista.

Tutto fino al 4 agosto del 2004, quando HBC vola verso i cieli con la sua inseparabile Leika a tracolla. Allergico a qualsiasi scatto su di sé (altra spiccata analogia con Patron Beppe) era capace di ogni stratagemma per sfuggire ai fotografi che lo assediavano durante le mostre, ne conosceva le astuzie e alle loro astuzie contrapponeva la sua sana furbizia, senza venature di cattiveria. “Non m’imprigionate”, diceva dolcemente ai suoi colleghi. E a chi voleva ascoltarlo nel parapiglia dell’evento mondano confessava: “Io sono un po’un San Francesco dell’immagine. Non ho parlato con gli animali, ma ho estratto dagli uomini, attraverso la fotografia, il meglio e il peggio e, in quest’ultimo caso li ho tutti perdonati, anche quando la mia Leica coglieva atroci istanti di ferocia”. Ma Henry non è più solo, ora. Il suo testimone artistico passa ad un’altra grande firma visiva per l’occhio del mondo: quella del Nikonista caravaggesco, alias Giuseppe Borsoi!!

Un commento su “Il Maestro fotografico dell’istante magico: Monsieur Henry Cartier Bresson.”

  1. Grazie Cara Amica e Collaboratrice, non trovo altre parole…hai parlato di mostri sacri della fotografia, complimenti per l’articolo!

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