Memorie di uno sperimentatore incallito che pranzava con Joyce e chiacchierava con Marcel Duchamp: Man Ray!

Copertina di “Autoritratto” scritto da Man Ray.

Mentre l’Italia riscopre Man Ray con una serie di imponenti retrospettive, mi pare quanto mai illuminante riprendere la lettura, piacevole e preziosa, del famoso “Autoritratto”, comparso in libreria, la prima volta, nel 1963 e ripubblicato nel 1998 in versione riveduta ed ampliata (“Autoritratto”, pag. 319, case editrice Se, costo 22,00 €). Ė il racconto folgorante della vita di un artista che a 3 anni disegnò il suo primo “omino” e, con tenacia ammirevole, riuscì ad imporre il nome prescelto, “Man Ray” (Uomo Raggio) per l’appunto, come quello di un pittore e fotografo geniale fra le avanguardie internazionali.

A partire dalla New York di Stieglitz con le prime esposizioni della galleria Armory Show, fino alla Parigi dagli anni Venti in su, fra l’amico Duchamp, Tzara, Argon, Eluard, Cocteau, Arp, Picasso, Braque, Matisse, Dalì, Giacometti, Magritte e, i prediletti Joyce, Hemingway, Pound, Gertrude Stein, Breton, l’amata Kiki de Montparnasse, modella per straordinari nudi e per la celebre enorme bocca rossa sospesa nel vuoto, fissata prima con la foto, poi sulla tela. Sono ricordi vivacissimi. Una galleria di personaggi che sembrano vivere per sempre, fissati dal suo occhio acutissimo, ironico, geniale.

Ci sono figure del bel mondo che ritrasse per guadagnare: ecco una marchesa Casati tutta sete e ninnoli, ma di lei non restano che due occhi bistrati che paiono triplicarsi. Ecco pure la testimonianza di eventi cruciali, per l’avanguardia come la nascita del “Grande Vetro” di Duchamp o l’uscita dell’”Ulisse” di Joyce a Parigi. Inoltre l’artista svela l’origine di talune sue tecniche che come “il rayogramme” o di oggetti come “Ferro da stiro con chiodi”. Ritenuto a lungo un magnifico “dilettante” per l’eguale amore nella pittura e nella foto, dimostra originalità e ingegno anche nella scrittura.

E sia allora: immergiamoci nel vortice dei ricordi, degli incontri, delle sensazioni narrate con sconvolgente verità da Man Ray, in prima persona, giacché solo un corposo assaggio della sua quotidianità pregna di forza vitale ed espressiva può rendere piena valorizzazione al suo essere artista e uomo dalla folle vena espressiva e dall’incontenibile effervescenza. “Duchamp abitava in uno stabile occupato prevalentemente da piccole imprese: tipografie, gommisti, officine meccaniche e altre attività non facilmente classificabili- racconta Man Ray con piglio descrittivo da incallito “noticer”-. Saliamo le scale, percorremmo lunghi corridoi tortuosi, finché si fermò davanti a una porta e l’aprì. L’interno, come la sua prima casa, sembrava un alloggio abbandonato; niente faceva pensare allo studio di un pittore.

“Era molto grande; il riscaldamento vi diffondeva un piacevole tepore. Una nuda vasca da bagno troneggiava al centro della stanza. Detriti e giornali s’ammucchiavano per terra. Dal soffitto pendevano parecchie tele del fratello, Jacques Villon, allora sconosciuto, che Duchamp aveva portato con sé. Accanto alla finestra, nell’angolo più remoto della stanza, era sistemato, su due trespoli, un grande pannello di vetro spesso, ricoperto d’intricati disegni realizzati con un sottile filo di piombo. Era la maggiore opera di Duchamp: “The Bride stripped bare by her Bachelors, Even” (“La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”). Dal soffitto pendeva una nuda lampadina, unica fonte di luce in tutta la stanza. Fissati alle pareti, con puntine, c’erano diversi disegni molto accurati, ricchi di simboli e di riferimenti: gli studi per il vetro. Duchamp accese la pipa e si sedette davanti al pannello”.

“Una sezione di esso era formata da una superficie irregolare, su cui era stato steso un amalgama d’argento, in modo che dall’altro lato apparisse come in uno specchio; su di essa Duchamp aveva tracciato una delicata serie di ovali. Armato di una lametta, si mise a grattare l’argento in eccesso. Era un lavoro noioso. Dopo un po’ si fermò, si passò le mani sugli occhi e sospirò: se soltanto fosse riuscito a trovare un cinese cui affidare quella fatica! Penso che intendesse dire ch’era per lui una schiavitù. Mi faceva pena e, desideravo aiutarlo. Suggerii che con un procedimento fotografico si poteva forse accelerare il lavoro. Era possibile, rispose; forse in futuro la fotografia avrebbe sostituito tutte le arti. Lo pensavo anch’io, ma forse non per le stesse ragioni (…). Era molto impressionato e, anche commosso. Prima di accomiatarmi proposi di tornare con la macchina fotografica per fotografare il vetro dei suoi trespoli. Ci stringemmo la mano; la sua stretta era calda e ferma (…).

“L’“Ulisse” di James Joyce stava per apparire in libreria e la Shakespeare and Company mi mandò l’autore per le foto di stampa. Miss Beach voleva anche qualche copia di un buon ritratto da distribuire agli amici. Fissai un prezzo non troppo alto, pensando di ricevere in omaggio una copia di quell’opera enciclopedica. Avrei potuto chiederla, o comprarla, ma non feci né l’una né l’altra cosa. Allora il libro costava poco, nessuno poteva prevedere se avrebbe avuto successo. Comunque mi misi seriamente al lavoro in quanto provavo un profondo interesse per quel fine volto d’irlandese, benché alterato da un paio di spesse lenti (stava per subire la seconda operazione agli occhi. Avevo letto alcuni brevi racconti sulla “Little Review” e, li avevo trovati interessanti. Glielo dissi sperando di metterlo a suo agio, poiché sembrava che posare fosse per lui un terribile fastidio. Fu tuttavia molto paziente. Soltanto dopo un paio di pose volse il capo cercando di sottrarsi ai riflettori e, con la mano sugli occhi, mormorò che non sopportava più quella luce abbagliante. Riuscii a coglierlo in quell’atteggiamento, in una foto che è ormai a più diffusa dello scrittore, anche se in certi ambienti è stata giudicata troppo artificiale, “posata”!

“Una sera c’incontrammo al caffè; Joyce aveva avuto ed era molto allegro; cantava a voce spiegata brani d’opera. Ė da lui che il figlio Giorgio, che poi è diventato cantante lirico, ha ereditato questo talento. M’invitò a cena nel suo ristorante preferito a Montparnasse, il Trianon, il più caro di tutti. Io discorrevo di pittura e di fotografia mentre lui con lo sguardo fisso e quasi inespressivo attraverso le spessi lenti, parlava pochissimo. Ogni tanto, tra un bicchiere e l’altro, accennava un motivo a bassa voce. Il pasto fu abbondante e delizioso. Leggendo in seguito l’“Ulisse”, mi è parso che anche in questo caso l’opera avesse alle spalle un enorme bagaglio di erudizione, di cultura letteraria. Si dovrebbe aver letto tutti i libri che ha letto Joyce, per apprezzare le libertà che si è preso con la lingua e l’abbandono del linguaggio convenzionale”.

Pittore, fotografo, scrittore, cineasta, Man Ray, come ben documentano le pagine gradevolissime del suo “Autoritratto”, prese parte a molte delle più significative esperienze artistiche del secolo scorso: la sua impellente brama di sperimentare lo spingeva, sempre, oltre la realtà, oltre il tangibile, oltre il materiale. Questa sua autobiografia, scritta con semplicità coninvolgente ed umorismo acutissimo, ne è la testimonianza più viva, attraente quanto un romanzo. Nei ricordi del settantenne artista prendono figura e corpo, specialmente i “grandi” del Novecento, svelati nelle loro più sfuggenti e segrete inclinazioni. A Man, infatti, interessava non l’evidenza concreta, quanto ciò che vi si celava oltre. Scoprire questo qualcosa, e rappresentarlo, è stata la sua vera ed unica missione artistica, che vale la pena di sondare e gustare pienamente, anche tra le pieghe della sua scrittura vitale ed arguta. Buon Viaggio letterario ed artistico, adorati BeppeBloggisti!! Vostra Elena P.

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