L’elogio dell’imprecisione: quando Marcel Proust commise un errore di fronte ai dipinti di Jan Vermeer!!

Copertina dell’opera “Proust e Vermeer”.

Lorenzo Renzi è un filologo romanzo d’una razza in via d’estinzione, fra i pochissimi di apertura così ampia: come i fondatori della disciplina, egli è insieme studioso di letteratura e di linguistica (di taglio moderno e di fama internazionale), medievista e curiosissimo del moderno; sono suoi fra l’altro un volume sulla politica linguistica della Rivoluzione francese e, pregevoli letture di poeti italiani contemporanei; né gli mancano, certo, forti interessi teorici. Così Renzi è un vero esempio per quanti, anche nella sua nobile e centrale disciplina, tendono sempre più alla cieca specializzazione.

Ora lo studioso si è rivolto, partendo da una curiosità apparentemente minima, nientemeno che a Proust, una delle sue passioni, di cui dimostra un’ammirevole conoscenza nel volume “Proust e Vermeer, sottotitolo Apologia dell’imprecisione”, editato da Il Mulino, pag.112, costo 10,00 €). L’argomento del libro, delizioso e ricco di acume, ha il suo centro nella pagina della Prisonnière sulla morte dello scrittore Bergotte (che rappresenta Anatole France, ma all’occasione Proust stesso) davanti a un adorato particolare della “Veduta di Delft” di Vermeer, che Proust giudicava “il più bel quadro del mondo”, cioè una superficie di muretto giallo con attigua tettoia, di una preziosità “cinese” (e quante superfici gialle straordinarie in altri quadri dell’olandese che certo lo scrittore ha visto, come la “Ragazza col turbante” o la “Lattaia”).

La scoperta di Renzi è che il riferimento proustiano, come in altri casi nella “Recherche”, è inesatto o “impreciso”: probabilmente egli ha “assemblato” il giallo di un tetto (non un muretto) con lo spiovente di un ponte (non proprio vicino) e, quanto alla preziosità cinese probabilmente ha di mira il dipingere per granuli o globuli luminosi, prepuntinistico tipico di Vermeer (che, si può aggiungere, non è particolarmente vistoso in quei due dettagli). Perché Proust, commenta Renzi col filosofo romeno Noica, non sta dalla parte dell’esattezza cui sono condannati i moderni ormai privi di Verità, ma della verità che “inebria” del suo Platone. E quando lo faceva “Proust si documentava non per scrupolo di esattezza ma di verità”.

Ma se lo scrittore ha ogni diritto all’imprecisione creatrice, così non è per il critico, che invece è tenuto a perseguire la maggiore “esattezza” possibile. Renzi lo dice chiaramente e lo dimostra mettendo agilmente in opera, al servizio di una verità apparentemente “piccola”, una serie imponente di spunti dei più diversi metodi critici: quello biografico, ostico all’autore ma opportuno per chi intreccia talmente arte e vita e “non sa inventare nulla”; l’esegesi e l’analisi stilistica, l’erudizione e la critica delle “fonti”, anche interne all’autore stesso; la critica simbolica o tematica, in particolare sui “leitmotive” proustiani (e su un motivo in lui importantissimo e, ancora platonico, come quello della “reminescenza” e, relativa coazione), e perfino la critica antropologica.

S’aggiungano le invidiabili conoscenze di pittura e l’incrocio suggestivo (che troviamo alle pagine 67 e seguenti) fra Proust e un romanzo di Semprun dove è sotto le lenti (ma forse in modo più esterno e funzionale alla “trama”) lo stesso dettaglio pittorico (di seconda mano?). Il libro di Renzi è anche un divertissement di chi sa che la filologia è prima di tutto gioco e indagine poliziesca e, perciò non si vorrebbe forzargli la mano. Si ha però l’impressione che con la sua forcella fra il diritto all’“imprecisione” dell’autore e dovere dell’esattezza del critico o interprete, esso finisca per inserirsi nella questione oggi spinosa dei “limiti dell’interpretazione”. Non solo “come”, ma fino a dove è possibile o lecito “interpretare”? Per sommi capi, il dibattito si condensa in tre filoni.

Il primo: se varie interpretazioni sono possibili, è da preferire quella insieme più semplice (“economica”) e che dia conto del maggior numero di dati in presenza. Il secondo: è accettabile la compresenza di diverse interpretazioni (cioè significati), quando non si tratti semplicemente di allegoria o simili, perché l’arte è polisensa (anche se viene naturale chiedersi: sempre, costituzionalmente, o solo nel caso dell’arte moderna?). Il terzo si schiera, semplicemente, lungo lo scivolo pseudonietzscheano, contro l’interpretazione e l’esattezza, accusate di razionalismo malato. Mi limito a sostenere che la mia testa pencola verso la prima posizione, è seriamente pensosa della seconda, ma considera la terza una delle pesti culturali del mondo attuale. Ebbene, nel libro di Renzi mi par di trovare un autorevole e gradito, nonché gradevolissimo alleato. Lo troverete, ne sono certa, anche Voi, adorati BeppeBloggisti. Buona lettura!! Vostra Elena P.

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