Il primo Sole della Venezia quattrocentesca: il Maestro delle Madonne, Giovanni Bellini.

Su Giovanni Bellini, allievo della celebre bottega lagunare del padre Jacopo e del fratello Gentile, su lui solo, riposa il futuro quattrocentesco della pittura veneziana. Lui solo ha attraversato il secolo, comprendendo e facendo propri i movimenti più profondi, pur rimanendo fedele a una sua coerente estetica di base: rivivono nella sua pittura, contemporaneamente, l’entusiasmo per la prospettiva brunelleschiana di Jacopo Bellini, il genitore; l’antico esaltato da Andrea Mantegna, suo cognato; la classicità marmorea di Tullio Lombardo; la strenua logica di Piero della Francesca; le risorse della nuova tecnica nordica della pittura ad olio; il passaggio a Venezia di Leonardo; il tonalismo romantico di Giorgione; l’innovativa vividezza cromatica di Tiziano.

Ebbene Giovanni Bellini non fu solo capace di non smentirsi mai, pur nella sua percezione limpida dei movimenti variegati del Quattrocento e del nuovo secolo, ma seppe restituire emozione ed impronta umanistica a quanto Venezia custodiva di più peculiare e prezioso, ovvero l’oro delle icone bizantine e dei mosaici che risplenderanno negli sguardi luminosi e, quasi mobili delle sue inconfodibili e bellissime Madonne.

Con movimenti impercettibili, le vecchie e statiche iconografie, stancamente ripetute sugli altari e sulle tele, fremono di autentica verità visiva grazie a Giovanni: si rinnovano in piccoli particolari rivelatori. E dove la modernità della pittura di devozione si dimostra con la nuova carica di sentimenti e di contemplazione, così nei ritratti si conferma, nello stoicismo di atteggiamenti impassibili, segno di dominio e di contenimento delle passioni. Se Tiziano sarà la Tramontana che soffia da Nord un vento innovatore e sferzante, Bellini è il Libeccio, caldo ed avvolgente, che alita, con moderatezza, soffi di vita pulsante. Sensibile ed aperto alle suggestioni delle opere di altri maestri, ma dotato di una straordinaria solidità sul piano formale come su quello spirituale, Giovanni riflette in tutta la sua arte (dall’acuta accensione patetica dei dipinti giovanili, alla serena classicità di quelli della maturità e degli anni più tardi) la vicenda dell’Umanesimo veneto e della sua felice affermazione.

La pittura che, chiudendo il Quattrocento, archivia, secondo le convenzioni storiografiche, la fase medievale dell’arte, si presenta con due forti caratteristiche, insieme tecniche ed espressive: l’applicazione della prospettiva, teorizzata e tradotta in immagine in area tosco-marchigiana e, la nascita della pittura tonale, fiore all’occhiello della produzione veneziana. Le due situazioni non sono peraltro contraddittorie; tanto più che si collocano in successione cronologica e, i pittori veneziani, che illuminano la pennellata con inedite dolcezze, hanno piena consapevolezza dell’impostazione spaziale dei maestri fiorentini ed urbinati: in particolare, proprio di Piero della Francesca, subito conosciuto e seguito. Ma altri stimoli giungono sulla Laguna, per via di diversi incroci culturali e anche, nella sollecitazione di un tipo di clima e paesaggio che stimolano fluide interpretazioni pittoriche.

In questo quadro generale, la figura di Giovanni Bellini, passato alle cronache artistiche con il nome de “Il Giambellino”, riveste una centrale posizione di cardine, con un succedersi di rapporti “dare-avere”, che culminano in un personale, altissimo magistero. Giovanni, come ho già sottolineato, proviene da una famiglia di artisti: il padre Jacopo, il fratello maggiore Gentile e una corona di collaboratori, tipica dell’ambiente veneziano. Una famiglia che è un cantiere, con un’abile organizzazione imprenditoriale, alle spalle; tanto che fino al 1470 circa, Giovanni, nato presumibilmente nel 1430 o poco oltre (la critica un tempo propendeva per il 1426, oggi invece si oscilla tra il 1430 e il 1433), non sviluppa una sua fisionomia distinguibile. E anche negli anni successivi, non sempre, le opere a lui riferite, vuoi per l’uso di notizie storiche, vuoi nella moderna pratica attributiva, lasciano alquanto tranquilli sul piano dell’autografia.

Ma qui va subito precisato e ricordato che le grandi officine d’arte, nella fattispecie quelle veneziane, fervidissime, puntavano su un tale numero di presenze operative da rendere, non si dice difficile, ma poco sensata, una rigorosa distinzione delle mani (la stessa cosa si verificherà nella bottega tizianesca). E’ ovvio, d’altra parte, che quando un maestro giungeva a formarsi una personalità forte e rappresentativa, essa conferiva un’impronta specifica alla sua produzione e, i contributi dei collaboratori divenivano soltanto interventi marginali.

Dunque il Giambellino si porta alla ribalta negli ultimi venticinque anni del secolo e, la sua lunga vita (morirà nel 1516) gli consente di assumere un ruolo rappresentativo di primo pianoa Venezia, quando già veniva delineandosi la nuova sensibilità cinquecentesca. Non è notizia dappoco che il Durer scrivesse di lui con rispetto ed entusiasmo, nel 1506. Nelle sue prime opere, l’energica definizione grafica indica evidente l’influsso del Mantegna, anche se i dipinti del Bellini si allontanano dalla veemente epica mantegnesca, per l’intonazione assorta e dolente delle rappresentazioni e, per l’intimo rapporto emozionale che viene a legare le figure. Va aggiunto che il Mantegna, dal canto suo, si fa tramite di una familiarità con diversi artisti dell’Italia settentrionale, con l’ambito ferrarese per esempio, dove oltretutto confluivano maestri europei di varie scuole.

Viene spesso da chiedersi come il Giambellino abbia avuto modo di conoscere l’opera del grande fiammingo Roger Van der Weyden, di cui spesso troviamo tracce nei suoi dipinti, anche per quanto concerne la fisionomia dei personaggi: ma Van der Weyden aveva lunghi e vari rapporti con l’Italia nel cuore del secolo e, per l’appunto con Ferrara. Però non risulterebbe alcun viaggio del maestro veneziano, fuori della Laguna e, gli studiosi si sono già domandati, come si spiegherebbe allora la rappresentazione di diverse riconoscibili città, sullo sfondo di varie sue opere.

Dunque soggiornava in pianta stabile a Venezia il nostro Giovanni e, la Serenissima andava via via arricchendosi di una mappa preziosa dei tesori realizzati dal Bellini: la “Crocefisisone”, il “Cristo morto sorretto da due angeli”, la “Trasfigurazione” incantano per il rigore naturalistico e l’intensità drammatica nelle sale del Museo Correr; altre opere significative da segnalare la “Madonna in trono che venera il bambino dormiente”, presso le Gallerie dell’Accademia, il “Polittico di San Vincenzo Ferrer” nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo; la luminosa e monumentale “Pala di San Giobbe” sempre all’Accademia; sempre nelle Gallerie brillano alcuni capolavori religiosi di rara perfezione, ovvero la “Testa del Redentore”, la “Madonna col Bambino, il Battista e una Santa” e la “Pietà Donà delle Rose”, che rivelano l’adesione del pittore al platonismo di Marsilio Ficino, studiato anche a Venezia e, ben interpretato, sul piano pittorico, dallo stesso Giorgione.

Questo palese neoplatonismo s’intende meglio, ammirando le ultime sue grandi opere, la splendida Pala di San Zaccaria, che ritrae, nel 1505, la “Madonna col Bambino, Santa Caterina, Sant’Orsola, San Pietro, San Gerolamo e angelo musicante” e, come potete osservare in tutta la sua magnificenza quale introduzione icongrafica di questo articolo, spicca per lo straordinario equilibrio monumentale, par la chiarezza cromatica e per l’eccellente fusione di toni. Da citare nel nostro tour lagunar-belliniano anche la Pala di San Giovanni Crisostomo, con la sua luce di antico tramonto, tanto importante anche per il giovane Tiziano, fino all’incantevole e trascolorante “Ebbrezza di Noè”. Sarà proprio la luce della Filosofia e della conoscenza; il colore mediato dal riverbero emotivo e il suo simbolismo neoplatonico; le geometrie albertiane riprese da Luca Pacioli proprio a Venezia nel trattato “De divina proportione”: ecco sarà proprio questo il bagaglio espressivo e tematico che farà dell’ultimo Bellini il più moderno dei pittori della sua generazione.

Il suo stile fluido, appassionato ma non violento, caldo, raffinato ed insieme vaporoso, che contraddistingue la sua fisionomia piena e che influenzerà subito il Giorgione e Lorenzo Lotto, sfuma nel 1516, l’anno della morte. Raggi radiosi raccolgono lo splendore belliniano e lo rafforzano con nuova linfa: un montanaro cadorino s’impone in Laguna, quale grande ed unico erede globale della scuola veneziana quattrocentesca. Il suo nome è Tiziano Vecellio. Vostra Elena P.

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