1940: Ernest Hemingway incanta la letteratura mondiale con “Per chi suona la campana”!

per chi suona la campana

Te ne “andasti”, amato “Papa”, una domenica mattina piena di sole, quando la tua testa non reggeva più ai corto-circuiti folli della memoria inceppata: adoravi la Vita, l’avevi perforata, divorata, gustata fino all’ultimo sorso, da Protagonista in tutte le esperienze, vere ed autentiche, in cui credevi. Da allora sei un “Assente ingiustificato” solo materialmente, perchè nella fantasia di mezza umanità tu vivi e scrivi ancora, con lo stesso impeto e con la stessa forza, di sempre. La scrivente, umile ma tenace, “ricamatrice” di parole di quel Veneto, di cui eri follemente innamorato, ogniqualvolta giunga nei pressi di una chiesa e, senta il suono di una campana, sussurra a sè stessa “Ė Lui! Papa è qui”, per dirci “Coraggio!! Finché senti la Mia Voce, vai!!”. E Noi andiamo per le vie del Mondo con l’eco delle tue parole dentro il cuore, ma prima, direttamente dall’Oasi dell’Arte, il fantastico BeppeBlog, vi doniamo alcuni pensieri intensi intorno alla vita dell’immenso Ernest Hemingway e, del suo insuperabile “Per chi suona la campana”.

Diverse le motivazioni che, nel corso di almeno tre periodi storici cadenzati e distinti, spinsero gli intellettuali americani a trasferirsi per periodi, più o meno lunghi, nel “Vecchio Paese”, quell’Europa a cui appartenevano e a cui li richiamavano le loro origini. A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, a spingere verso l’Europa Henry James ed Edith Wharton, Gertrude Stein e la sua amica Alice Toklas fu l’angustia culturale del loro paese, la cappa di puritanesimo sotto cui la loro diversità personale ed intellettuale si sentiva soffocare.

Negli Anni Venti la cappa di puritanesimo aveva forse in parte cominciato a sollevarsi, ma sull’orizzonte incombevano le durezze della crisi economica finalmente esplosa con il crollo di Wall Street nel 1929. A fare da tramite e da anfitriona per la nuova ondata di emigrati fu l’acuta, inquieta intelligenza di Gertrude Stein, che li definì scherzosamente la “Lost Generation”, ovvero “La Generazione Perduta” (altri li chiamarono i “Sad Young Men”, ossia i “Giovani Tristi”), e spalancò loro le porte del suo salotto parigino.

Vi arrivò Fitzgerald, vi passò per breve tempo Sherwood Anderson, vi entravano e uscivano E.E. Cummings, Archibald Mcleish, John Dos Passos; vi s’installò, con la sua massiccia presenza, un giovanotto speciale (“un ventitreenne di straordinario bell’aspetto”, secondo le parole della stessa Stein) che si era coperto d’insanguinata gloria, sul fronte italiano della Grande Guerra e, già appariva predestinato a diventare uno dei numi tutelari della letteratura degli Stati Uniti: Ernest Hemingway.

Diverse ancora le motivazioni che, negli anni Cinquanta, spinsero un’altra ondata d’intellettuali e artisti di varia specializzazioni (scrittori, pittori, jazzisti) a raccogliersi a Parigi, attorno alla mitica (e programmaticamente sgangherata) redazione della “Paris Review”. L’angusta realtà che li aveva spinti all’emigrazione non era più quella del puritanesimo, ma quella dell’intolleranza maccartista, abbattutasi sul loro paese, dopo lo slancio di solidarietà e rinnovamento del “New Deal”.

Una realtà che Hemingway aveva fatto preannunciare da Robert Jordan in una pagina fatidicamente memorabile di “Per chi suona la campana”. Come tanti altri intellettuali imbevuti di spirito roosveltiano, Jordan è partito di slancio, per andare a combattere contro il fascismo in Spagna. Ma, così facendo, si è autoimposto il marchio di “rosso”: al ritorno, riflette con amarezza, scoprirà probabilmente che nell’università in cui insegnava, non c’è posto per lui. Com’è noto, lui non tornerà, ma per molti volontari reduci dalle battaglie dell’antifascismo europeo le cose sarebbero andate, esattamente, così.

Senza dubbio, “Per chi suona la campana” (casa editrice Mondatori, collana Oscar, costo 8.80 euro) è il capolavoro riconosciuto di Ernest Hemingway, da cui è stato tratto l’intramontabile film con Gary Cooper e Ingrid Bergman. In esso si celebra la grande metafora del ponte, che non unisce ma divide e che, saltando, dovrebbe portare la vittoria dell’unione e della concordia. Di farlo saltare è incaricato Robert Jordan, americano volontario nella guerra antifascista di Spagna. Sul suo tentativo incombono oscuri presagi. Glielo annunciano confusi presentimenti; soprattutto le premonizioni della partigiana uscita dal cuore del popolo spagnolo, Pilar, che nella sua mano ha letto il male, un evento oscuro non svelato ma non difficile da intendere. Innamorato della vita, della Spagna e della libertà, di cui il selvatico amore libero e felice per la giovane Maria rappresenta un simbolo palpitante, Robert Jordan porterà comunque a compimento la sua impresa. Il ponte salterà, ma la conseguenza sarà unicamente la sconfitta di una grande speranza.

Ma ritorniamo al clima di riscoperta della libertà in Europa, nel secondo Dopoguerra, dove questi esponenti della terza emigrazione americana non erano più “Giovani Ragazzi Tristi”: erano, anzi, sfrenatamente allegri, giovani, irriverenti, vincitori di due guerre mondiali, ricchi dei loro non molti dollari in un’Europa che si curava ancora le profonde piaghe della guerra, capaci di demenziali follie in nome di un “esistenzialismo”, frettolosamente ingerito e sommariamente assimilato, come ha ricordato un maestro del giornalismo narrativo, il calabro-americano Gay Talese. Lo fece in uno scintillante articolo apparso nel 1960 su “Esquire” e intitolato “Looking for Hemingway”, in cui appunto ricostruiva clima e vicende della redazione parigina della “Paris Review”. Hemingway non era più a Parigi, viveva i suoi accigliati autosili, ma loro si erano trasferiti in massa lì, proprio sulla scia del suo ricordo. Più che seduti nel chiuso della redazione della rivista, i redattori lavoravano, tumultuosamente, di cervello nei cafè della “Rive Gauche”, discutendo articoli e pezzi creativi, mentre tenevano ansiosamente d’occhio la terribile mangiasoldi di quei tempi, la “Pinball machine”, il flipper, in attesa che venisse il loro turno di piazzarsi ai pulsanti.

Così facendo, con giovanilissima irriverenza e irruenza, riuscivano ad editare una rivista destinata a rimanere mitica negli annali della letteratura mondiale. Bevevano assenzio, come fa Robert Jordan in “Per chi suona la campana”, si trasferivano in massa in Spagna per fremere di emozione per le strade di Pamplona, con l’alito rovente dei torelli sul collo, nel riverente ricordo di “Fiesta” e di “Morte nel pomeriggio”. Ma “Papa” Ernest non era più lì. E, se fosse stato lì, sarebbe probabilmente inorridito nel vederli, esattamente come loro ostentavano orrore alla vista degli sciami di “turisti”, loro compatrioti, che avevano cominciato ad affollare Parigi e l’Europa.

Come era arrivato, il ventitreenne Ernest Hemingway, nell’aperto ma esigente salotto di Gertrude Stein dalla lontana e sonnolenta cittadina di Oak Park, nell’Illinois, dove era nato il 21 luglio 1899, figlioli un malinconico medico e di un’ispirata seguace delle arti, che avrebbero voluto farne un musicista? Il viaggio era stato lungo, nonostante la giovane età. Prima tappa Kansas City, città in pieno boom, dove il ragazzo Ernest si trasferisce a 18 anni, per fare il cronista praticante presso un giornale. Intimidito ma ferramente motivato a imparare il mestiere, tesserino infilato nella tesa del cappello e taccuino in mano, corre qua e là, a fare gavetta. Ma, passati pochi mesi di assestamento ed esperienza, la sua sete di novità, la sua curiosità vitalistica, il suo spirito avventuroso prevalgono.

In Europa imperversa la Grande Guerra e, lui vuole andarci a tutti i costi, anche se un difetto all’occhio sinistro, lo ha fatto scartare alla visita di leva. Non demorde: si aggrega alla Croce Rossa e si distingue sul fronte carsico, dove ha il primo massiccio contatto con quella “morte”, che successivamente avrà un’importanza basilare, nella sua carriera letteraria quanto nella vicenda personale, due fenomeni sempre tesi a comporsi in un “unicum” totalizzante. Viene ferito gravemente da un mortaio austriaco, ottiene la Medaglia al Valore dalle autorità italiane. Trascorre la convalescenza a Milano e in Lombardia: ha visto e sperimentato tutto ciò che gli servirà, di lì a qualche anno, per scrivere l’altro capolavoro, “Addio alle armi”.

La guerra, le visioni di morte, la stessa constatazione di quanto sia facile morire, lo hanno segnato, profondamente, nello spirito, oltre che nella carne. Congedato, torna a Oak Park, dove tuttavianon riesce più ad inserirsi. Poco più che ventenne, ha vissuto e visto troppo, per potersi riadeguare alla routine della provincia americana. Litiga con la (mai sopportata) madre, scappa a Chicago, dove sopravvive scrivendo articoli per il “Toronto Star” e, facendo lo “sparring partner” per i boxeur. Appartiene ormai, senza scampo, alla schiera dei “Giovani Tristi”, malati d’Europa. Decide di tornarci, di trasferirsi a Parigi, un posto dove “l’arte viene presa sul serio”(affermazione di Sherwood Anderson). Parigi non poteva che significare che Gertrude Stein, con il suo fondamentale credo letterario di concisione, semplicità, pregnanza narrativa.

Ci arrivò pronto ad assorbire come una spugna visioni, sensazioni e suggestioni. Se ne andò e tornò più volte, dando il via a una vera e propria forma d’inquieto pendolarismo personale e culturale. Ormai non aveva più ventitré anni, ma ventisei. A un certo punto parve che “tutti questi giovanotti avessero ventisei anni”, ha scritto ancora Gertrude Stein:”Era evidentemente l’età giusta per quel luogo e quei tempi”. Ebbene, a ventisei anni Hemingway aveva già assorbito tutto ciò che gli serviva per la sua carriera letteraria in fieri: il senso della guerra, la Spagna, il viaggio ramingo, l’idea fissa dell’uomo come essere che vive soltanto per confrontarsi con la morte. “La vita di ciascun uomo finisce nello stesso modo” avrebbe dichiarato, secondo un articolo pubblicato postumo in “Sunday Times”. “A distinguere un uomo dall’altro sono solamente i particolari del modo, in cui è vissuto e morto”.

E lui aveva assistito alla morte di tanti uomini, aveva perduto il padre per un suicidio che avrebbe dovuto essergli premonitore e, che invece aveva suscitato in lui uno sdegno feroce, aveva visto combattere con le unghie e con i denti, si era sentito penetrare nel sangue la Spagna dei toreri e degli intellettuali, delle chiromanti gitane e dei combattenti antifascisti. A fare da collante per il tutto si aggiunga una sapienza letteraria istintiva che partiva dall’alto, dalle estenuate tensioni linguistiche di Mark Twain. “Tutta la letteratura americana”, avrebbe scritto in “Verdi colline d’Africa”, “viene da un solo libro di Mark Twain:”Huckelberry Finn”. Ma a fare da solido sostegno a questa sapienza istintiva c’era la lezione delle visionarie capacità narrative di Jack London, cementate dalla breve ma intensa esperienza di praticante cronista.

Di tutto ciò non sapeva nulla quell’ Italietta turbolenta del dopoguerra che si passava avidamente, di mano in mano, “Per chi suona la campana”. Che novità incredibile appariva la prosa asciutta, scarna, sensuale e passionale di Ernest!! Che immediatezza di linguaggio, che fulminante crudezza di situazioni. Concludere le frasi dei primi timidi esperimenti letterari con i canonici “…disse…disse”, sembrava diventato un obbligo imprescindibile per gli aspiranti scrittori di qualsiasi sfera culturale d’appartenenza. Soltanto molto più tardi, rileggendo i libri di Hemingway in americano, si capì pienamente quanta sapienza letteraria possa andare persa in certe traduzioni letterarie, si badi bene, anche le più eccelse. La sequela di “dissi-disse” dei romanzi americani, quando viene trasposta nella nostra lingua è probabilmente più consigliabile renderla con verbi diversi: dissi, replicò, ripetei, ribattè, riflettei, considerò. Già basterebbe considerare che gli americani scrivono “disse” anche nelle frasi interrogative, dove per noi è d’obbligo scrivere “chiese”.

Poco male. Anzi: molto bene. Ancora oggi, leggere “Per chi suona la campana” è un’esperienza d’intensa emozione, una magnifica lezione dal vivo di scrittura creativa. Ri-leggerlo in americano, poi, significa scoprire un autentico patrimonio di preziosità letterarie, mai adeguatamente apprezzate. Il profumo di latinità, per esempio, che promana dalle conversazioni di Robert Jordan e dei suoi compagni spagnoli di lotta partigiana, la sanguigna Pilar, il torbido Pablo, l’onesto Anselmo, la guapa Maria, lo zingaro, gli altri. Conversazioni sempre condotte con il thou-thee, ovvero con il “tu-te”, che nella lingua inglese (e ancora di più in quella americana) appartiene ormai soltanto alle formulazioni arcaiche, sostituita dal più immediato e semplicistico “you”, che serve ala stessa stregua per il tu come per il voi e unifica le due forme verbali della seconda persona, singolare e plurale.

Per l’orecchio, istintivamente, letterato di Hemingway, in questa specifica occasione, lo “you” non sarebbe mai potuto bastare. Gli spagnoli parlano con il “tu” e proprio da questo uso del “tu” derivano la musicalità e una certa solennità della loro lingua. Di conseguenza, per rendere queste cadenze musicali e solenni (ad esempio: invece di “have you”, “ask thou?”, ecc), Hemingway mette in atto una sequela di autentici miracoli di equilibrismo linguistico (più che mai riconducibili a Mark Twain, al suo uso magistrale di dialetti, sottodialetti, idioletti e inflessioni locali, mescolandola in maniera inscindibile con la sua visionarietà narrativa, alla Jack London e, ottenendone un effetto letterario esplosivo. Un effetto purtroppo, che nella tradizione letteraria (essendo per noi il “tu” un fatto del tutto normale), non può che andare perduto. Si pensi, per tentativo di esempio, alle singolari tonalità e coloriture, che assumerebbe un romanzo contemporaneo, in cui i personaggi dovessero essere fatti parlare con il “voi”, invece che con il “lei”.

Si prendano, dunque, con molte riserve le critiche italiane, che parlano di Hemingway come di uno scrittore povero di stile, tutto trama e niente lingua. Non è affatto così e, “Per chi suona la campana” ne costituisce l’esempio principe. Ma a quei tempi (fine Anni Quaranta) le traduzioni venivano fatte e rifatte con cura certosina, sicché, anche se qua e là privato del piacere di cogliere alcune finezze, il lettore non anglofono troverà, comunque, uno straordinario appagamento nel tumultuoso, inarrestabile svolgersi della vicenda, nel secco splendore delle descrizioni ambientali (probabilmente impareggiabili nella prosa hemingwayana), nell’emergere prepotente dalla pagina di personaggi come Pilar o il vecchio Anselmo, magnifico, dolente preannunzio di un altro grande vecchio hemingwayano: quello tutto solo, sulla sua barca, alle prese con il grande pesce spada e con il mare.

La vicenda partigiana di Robert Jordan, la sua inarrestabile marcia verso una morte più volte annunciata, con il suo contorno di sangue e di violenza, di combattenti popolani e di popolani filosofi, di esotismo ispanico e di suggestioni gitane, di “sombra y sol” come nella più canonica delle arene di tori, è uno specchio variegato e fedelissimo dell’arte di Ernest Hemingway, un’arte che non comincia là dove finisce la vita, ma che con la vita si confonde, fino a renderli due fatti, non semplicemente paralleli, ma indistinguibili. Il partigiano antifascista volontario Robert Jordan non è semplicemente una proiezione dell’autore; Robert Jordan è Ernest Hemingway, per il semplice motivo che i libri di Papa Hemingway sono una proiezione della sua vita e, reciprocamente, sulla sua vita proiettano le loro ombre: un progressivo e sempre più amaro rimuginare sulla sorte dell’uomo nel suo confronto obbligato con la morte.

Tante volte ferito nella carne (e nello spirito) nell’avventuroso ma lungo dipanarsi della sua vita,da un certo punto in avanti Hemingway dovette andare, convincendosi sempre più della vanità delle cose umane. Se per tutta la gioventù aveva manifestato un feroce sdegno per il cedimento del padre, per la sua mancanza di coraggio davanti alle difficoltà della vita, già in “Per chi suona la campana”, il lettore coglie toni totalmente diversi. Al trasfigurato ricordo del suicida, Robert Jordan dedica pensieri di profonda delicatezza e commozione. Al momento di mettersi, letterariamente, nei suoi panni, Ernest aveva, con ogni probabilità intuito, per chi era in procinto di suonare la campana, aveva già avvistato, in fondo alla discesa precipite che stava diventando la sua vita, quale ne sarebbe stata la conclusione inevitabile. Anche per Lui, come già per il padre, un atto di suprema codardia rivalutato, umanizzato in quanto atto di nefasta “autoaffermazione”: il suicidio.

Di fronte al doppio colpo di fucile, con cui il 2 luglio 1961, all’età di quasi 62 anni, Ernest Hemingway si tolse la vita, non è forse possibile pensare ad altro, se non all’unica conclusione possibile di una vita, tutta strenuamente vissuta, come inscindibile altra faccia dell’arte. All’inevitabile proiettarsi nella realtà  delle morti di Robert Jordan, di Francis Macomber, del torero Finito e dei tanti mitizzati attori del vitalistico e tragico spettacolo detto corrida. La definitiva autoaffermazione del “Grande Vecchio” costretto ad avventurarsi da solo, senza scampo, nel mare della vita…Mentre il mare delle sue parole ancora pervade le nostre Anime di eterna ed inestinguibile passione per le Emozioni…Perchè in fondo, gli Artisti non muoiono mai del tutto, ciò che creano li rende vivi e presenti nel Mondo, oltre il tempo e oltre lo spazio. Buona Lettura, Aficionados dell’ineguagliabile Piazza artistica, presieduta da un Uomo ed Artista-Primo Cittadino del Blog, davvero di gran stoffa!! Vostra Elena P.

4 commenti su “1940: Ernest Hemingway incanta la letteratura mondiale con “Per chi suona la campana”!”

  1. Mille grazie Elena P.!
    Ogni volta che ripenso alla figura di Hemingway mi sento attraversato da un misto tra brivido e “nuovo coraggio”. Le persone con la “stoffa” di uomo e di artista di “Papa” dovremmo tutti stamparcele in testa e non dimenticarle mai.

  2. Sentitamente e vivamente La ringrazio: scrivere di Papa è scrivere di Vita allo stato puro!!
    Cordialmente!! Elena P.

  3. Sto rileggendo ora Per chi suona la campana e mi stupisco di quanto appassionante sia la lettura. Hemingway lo adoro per la sua onesta’ intellettuale, per il suo andar contro tutto e tutti pur di rimanere se stesso. Sono pero’ convinta che la vita di Hemingway avrebbe potuto prendere un sentiero diverso se solo Adriana Ivancich avesse avuto il coraggio di rimanere a Cuba con lui, invece di tornare di corsa a Venezia dopo la pubblicazione e lo scandalo del libro Al di la’ del fiume tra gli alberi. Si’, secondo me sarebbe stata diversa la vita per entrambi, ma Adriana era troppo giovane ed era spaventata. Peccato.

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