La struggente storia di Ottavio Bottecchia: ciclista per fame.

Ottavio-Bottecchia

Correva l’anno 1923 ed il giornalista Borrella vagava indagante per la stazione di Bologna, alla ricerca d’un ciclista sentito poco nominare, ma di non molto prezzo come si usava dire allora (oggi si parlerebbe d’ingaggio), tale Ottavio Bottecchia (1894-1927), che gli riferivano essere bravo, tenace ed infaticabile. Il Borella era giunto lì, direttamente da Parigi, per trovare qualche sbrindellato ciclista italiano, di rincalzo, per il prossimo Tour de France, che bussava perentoriamente alle porte. Di Costante Girandergo, la cui fama infiammava i cugini d’Oltralpe, neanche a parlarne: impermittibile, costava troppo…

Ma, eccola su una panca anonima della stazione bolognese apparire la sua risposta, il suo uomo: un viso magro in eccesso con gli occhi, che s’incavavano bigi e, il naso aquilino, disegnato da cartilagini scarnificate. Bottecchia gli dedicò, da lontano, lo sguardo sfuggente e solitario, tipico di chi aveva patito fami ataviche ed inenarrabili. Aveva il biglietto rosso di terza classe infilato dietro l’orecchio, mangiava con dignità il suo pane e formaggio, ormai ridotto alla crosta. Nondimeno, a pochi passi dall’adorata bicicletta, c’era lì accanto, inseparabile, la bisaccia intatta del rifornimento corsa, reduce dall’ultima gara e mai consumata: tortelli di riso, mezzo pollo, marmellata, zucchero, ovvero i viveri di prescrizione. Quando, dopo averlo salutato, il giornalista Borrella gli chiese perchè non li mangiasse, lui replicò educato che quei viveri li avrebbe portati a casa sua, in Veneto, dai suoi cari…”Cussì i pol magnar calcossa”, scandendolo nei suoni meravigliosi della sua lingua. Bastarono quelle parole eloquenti ed incisive, per misurare il coraggio dell’uomo Bottecchia: lo reclutò.

Giunto in Francia, il patron del Tour, Desgrange, chiamato dai corridori il “nonno assassino” o “il sanguinario” per come sceglieva i percorsi, lo volle gregario dei fratelli Pèllisier. Invece “Botescià”, come lo osannavano i francesi, sorprese ed incantò tutti, ritrovandosi dopo solo due tappe la Maglia Gialla, aderente al suo torace longilineo, di coriacea tempra contadina. E, come narrano le cronache sportive dell’epoca estasiate di fronte a tanta bravura, sull’Aubisque, mostruosa ma celeste salita pirenaica, il nostro Ottavio avvertì tutti con il suo fare ingenuo ma infallibile, “A vae mi a vinzer”. Era un sentiero fracido di pietrisco e neve, ma il sole gli arroventava il cuore come una cantilena di casa e, l’erba circostante era lucida come quella delle sue pianure attorno al Piave: ebbene, sbaragliò tutti.

Ma, come si sa, i puri e gli umili di cuore, i veri buoni, hanno vita dura, anche se ricchi di talento, di fronte alle mille volpi, “braci coperte”, che gli correvano alle spalle, lontani, molto lontani, ma vicini, con il fiato dell’ invidia, pronto ad alitargli sul collo. Per evitargli di vincere il Tour, i corridori francesi si accordarono strategicamente, mentre Bottecchia correva per amor di corsa, senza molto pensare e, in autentica buonafede. Sulla vetta dell’Izoard, la posta in palio fu loro, così come il titolo finale del Tour. Tuttavia la “Gazzetta dello Sport” ripagò l’onore dell’epopea compiuta dal nostro Ottavio con una sottoscrizione, che gli rese, allora, la cifra di ben 61.725 lire. Al settimo cielo, Ottavio, carattere solido, ci si costruì un casetta ed imparò la lezione.

L’anno dopo, non ci fu gara nè storia per alcuno: Bottecchia si mise la maglia gialla alla prima tappa e non la levò fino a Parigi, incoronandosi campione. Senza badare ad una lettera anonima, tipica dei vili, che lo minacciava in tali termini:”Sei un fascista e la pagherai”. Ma nulla può spaventare il sicuro procedere degli umili di cuore, quando colgono la loro naturale rivincita. Ottavio non volle accattivarsi la simpatia e l’appoggio del regime fascista, cercando protezione e facendo la vittima; anzi, fiero e volitivo, non battè ciglio: non dimentichiamo che era stato bersagliere ciclista, sotto il fuoco nemico degli Austriaci, sull’impervio Carso. E, quando gli avevano rubato la sua amatissima bici, senza alcun timore, se l’era andata a riprendere nella trincea avversaria, da quelli che aveva apostrofato con un, “Buonanotte fioi de’ cani”, che gli facevano sputar sangue e fatica nel guerreggiare. Decorato durante la Grande Guerra, ma al ritorno, dopo il 1918, crucciato e divorato da perpetua fame che risolse e vinse solo correndo in bicicletta, tra territori sbranati dalla miseria più cruda e spietata, in quel Veneto laborioso che troppi oggi vorrebbero seppellire.

Non contento, dopo il trionfo del 1924, rivinse il Tour de France anche nel 1925. E nella ridente borgata di San Martino di Colle Umberto, tra spettacolari vigneti e dolci colline, dove era nato nel 1894, soddisfatto si vide finalmente tra mobili, acquistati con i suoi sacrifici e, tra numerosi polli che significavano prosperità ed abbondanza: disse con quella bonarietà, che possiedono solo gli animi schietti ed illuminati da Dio…”Son diventà sior, tosati…Sior de poter magnar!” Era un solitario, senza fantasie e grilli per la testa, il nostro Ottavio, che nascondeva dentro di sè, come tutti i timidi, l’animo del più indifeso ed insicuro degli atleti. Si crucciò, ma solo un poco, che le Case del Giro d’Italia gli preferissero Alfredo Binda e, quindi, di non riuscire ad ottenere titoli in patria: non sapeva covare rancori, come tutti i puri di cuore. E neppure la sua decadenza, nel quarto Giro di Francia a cui partecipava, lo impensierì più di tanto. Anzi, confessò tra sè e sè che al Tour, ogni volta, c’era troppo da pensare e da macchinare e, lui non era tagliato per i giochetti sporchi, sotto banco. Così tirò avanti nelle corse, compiaciuto di annotare sul suo bisunto quadernetto, supremo testimone delle sue ascese, date ed ingaggi.

Nel marzo del 1927, però, una caduta in allenamento gl’impedì la Milano-Sanremo; dubitò che, forse, a trentatrè anni, dopo fatiche sovrumane, potesse bastare. Invece riprese, da buon contadino testardo. Ma poi arrivò il telegramma funesto che annunciava la morte del carissimo fratello Giovanni, ardito durante la guerra, investito beffardamente proprio in bicicletta. Bottecchia si disse che non avrebbe mai più corso, sull’onda di un dolore lacerante. Stava finendo la primavera e, come in una commovente scena da romanzo, gli passò vicino a casa il Giro: si sentì rassicurato ed emozionato dai tanti educati “arrivederci” degli altri amici-corridori, che lo aspettavano a braccia aperte. Sarebbe tornato ad allenarsi, perchè certe volte il destino crudele viene a strapparci, anche nel nido più sicuro e protettivo della nostra casa: il tre giugno 1927 partì in bicicletta. Lo raccolsero agonizzante per strada in Friuli, vicino a Gemona: morì dodici giorni dopo, vaniloquente, in ospedale. “Il Sior del pedal el tasea par sempre, lu e la so putea bici”. Subito, la morte tremenda di Ottavio bastò per eccitare quello che dei vizi degl’italiani è il più ignobile e compiaciuto: il piacere del retroscena per cui c’è sempre qualcuno, che sa regolarmente, al pari di un testimone oculare, come sono andati veramente i fatti.

Così, da un parte, socialisti ed esuli reclamarono Bottecchia all’antifascismo, ricordandosi, che dopo la guerra era emigrato in Francia ed aveva frequentato circoli proletari: ne dedussero, secondo la loro personale lettura dei fatti, che la sua morte era un delitto. Per ripicca il regime fascista aprì un’inchiesta, con cui si riconfermò che si era trattato di uno scivolone. Ma venne poi, nella ridda delle ipotesi, la rivendicazione di un gruppo anarchico a far ridiscutere la questione, che tornò a complicarsi non poco. Poi ci fu un tale, emigrato dalla Sardegna in America, che accampò, sul letto di morte, la pretesa di sapere che la morte dei due fratelli Bottecchia, a poca distanza l’uno dall’altro, fosse stata decisa dalla mafia: si parlò di una vendetta per una corsa truccata ad Anversa, a cui i due fratelli non avrebbero obbedito.

All’improvviso arrivò, come uno squarcio nel cielo più nero, la brutale confessione sul letto di morte del vecchio contadino proprietario del campo, dove Bottecchia era finito con la bici vaniloquente: a ridurlo in fin di vita, sarebbe stata un mal dosata e violenta bastonata, con cui il contadino voleva punire, selvaggiamente, quell’uomo in pantaloni corti, che stava mangiando un grappolo della sua uva. Non è dato sapere se il contadino avesse riconosciuto in quel viso asciutto e magro il grande Bottecchia.

Oggi a noi è concesso solo di riflettere in silenzio e di commuoverci, se possediamo ancora un cuore di carne viva e non pietrificato dal cinismo, ricordando quel piccolo-grande Uomo, che lasciava le sue colline, spinto da una sete inestinguibile di vento e dai crampi di uno stomaco eroso dalla fame e, che morì, in una mattina afosa d’inizio giugno del 1927, assaporando gli acini “avvelenati” di un’Italia meschina, ingorda di vendetta e di possesso. Meditate gente, mi raccomando. A presto con nuove ed appassionanti storie del nostro splendido Veneto. Vostra Elena P.

6 commenti su “La struggente storia di Ottavio Bottecchia: ciclista per fame.”

  1. Grazie infinite, Toni!!! Il Suo “bellissima”, accanto a ricostruzione, mi emoziona e mi onora: la mia Scrittura nasce e vive grazie all’umanità e alla curiosità del pubblico più attento e sensibile…Mi creda, però, che il merito dei contenuti di quest’articolo è tutto di “Tai”, il Grand’Uomo e Atleta Ottavio Bottecchia: la Sua vita straordinaria, commovente e autenticamente veneta si è lasciata raccontare, con partecipazione totale e incondizionata, dal mio cuore e dalla mia mente, che da sempre rincorrono e s’ispirano alle Figure cariche di ideali, di passione e di verità e di civiltà…Tra queste Tai riveste un Posto d’Onore nel mio “Album dei Giusti”!! A presto, per altri ricordi toccanti sul leggendario Collumbertese.

  2. Ciao! Siamo lieti di segnalarvi che al grande Ottavio Bottecchia è dedicata una delle ultime uscite di Tunué , il graphic novel di Giacomo Revelli e Andrea Ferraris dal titolo: Bottecchia, che racconta l’epopea del grande ciclista italiano primo a conquistare la maglia gialla al Tour de France.

  3. Ho letto con molto interesse il suo articolo e le sono grato per la ricorstruzione. Un’unica cosa non mi torna: L’anziano che ha confessato di aver ucciso Bottecchia afferma di averlo punito per avergli mangiato l’uva. Bottecchia è stato colpito il 3 giugno….. Non so in quale parte del mondo, ma nel nostro Veneto e Friuli, non cresce uva che sia commestibile il 3 giugno, mancano almeno un mese e mezzo perchè sia matura. Forse il capitolo sui motivi della sua morte è ancora ben aperto.

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