Eccentriche, americane e dotate di grande fiuto: le Collezioniste d’arte del Novecento.

Libere, stravaganti, raffinate. Talvolta persino eccessive. Dotate di grande fiuto o, più semplicemente, ben consigliate. E, soprattutto, anche tanto, tanto ricche. Sono le signore dell’arte della prima metà  del secolo: le collezioniste. Ovvero le americane innamorate delle avanguardie artistiche.

Coraggiose figure femminili impegnate ad esplorare, con vero spirito pionieristico, un mondo sino ad allora, tagliato al maschile. Oggi di queste intrepide signore, dalla forte personalità, si occupa con particolare attenzione la professoressa Rosella Mamoli Zorzi, docente all’Università Ca’ Foscari. Che sul plotone delle appassionate americane ha scovato sorprese davvero “succose”, di cui cercherò di rendervi partecipe, con una carrellata strepitosa di “Pigmalioni” al femminile. Consacrando, tra molti aneddoti, la centralità dei loro ruoli nelle vicende artistiche del secolo. Come accadde alle due sorelle Claribel ed Etta Cone, la cui collezione costituisce attualmente il nucleo fondamentale del museo di Baltimora. A Jane Stanford, che dedicò la vita alla costruzione del museo Leland Stanford in California. E, ancora, ad Abby Rockefeller, Mary Quinn Sullivan e Lillie P. Bliss, le tre colte signore di New York che, durante un viaggio di piacere in Egitto, decisero di fondare il Moma, ossia il Museum of modern art. Raccogliendo in eredità il gusto per la scoperta, di altre numerose signore a stelle e strisce.

Protagonista indiscussa di questa conbriccola di talentuose investigatrici dell’arte, come anticipa la curatrice, è un’americana di Baltimora, già consacrata come la più amata e rinnegata profetessa dell’avanguardia letteraria e pittorica del Novecento: all’anagrafe, Mrs Gertrude Stein, di cui vi ho selezionato un possente ritratto, ammirabile in calce all’articolo, eseguito da Pablo Picasso nel 1906, fedele amico della collezionista e, attualmente visibile al Moma di New York. E’ la Stein che assieme al fratello Leo, di professionista esteta, si era trasferita in Europa dove, dopo aver esaurito il suo interesse per l’arte antica, cercava qualcosa di nuovo. Erano gli anni Dieci. Gertrude Stein, vestita di velluto marrone a coste, si aggirava per Parigi indossando calze di lana sotto sandali sformati e, malgrado il poeta Apollinaire li definisca “sandali bacchici”, il suo abbigliamento le impediva l’accesso al glorioso salotto culturale del Cafè de la Paix.

L’ignaro gestore non sapeva che quella donna, con i capelli tagliati cortissimi e la risata fragorosa, sarebbe stata un personaggio fondamentale per l’arte moderna. Fu proprio Bernhard Berenson, il grande cultore dell’arte antica, ad indirizzare i due fratelli a Cèzanne. I maligni sostengono per liberarsi di loro, che, frequentatori della biblioteca della sua villa fiorentina, consultavano testi rinascimentali sdraiati per terra, bevendo gazzose e fumanti sigari. Dopo Cèzanne, l’incontro seguente fu con Matisse. I suoi dipinti dai colori sgargianti cominciarono a pendere in fila nel salotto di casa Stein. Al 27 di rue de Fleurus c’erano anche dei piccoli Renoir e dei Gauguin. Fu sempre a casa Stein che Ricasso incontrò Matisse, erano fedelissimi e di casa anche Braque, Apollinaire, Derain e Kahnweiler, il mercante d’arte che avrebbe lanciato il cubismo. Ma non solo. Ma non solo. Gertrude Stein non fu unicamente una collezionista, fu anche un’intelligente ed instancabile promotrice dell’arte moderna. Tanto che convinse all’acquisto e consigliò tutti gli amici americani che passavano a Parigi, compreso un insigne collezionista di Philadelphia, il dottor Albert Barnes, accompagnandoli negli studi dei suoi amici artisti.

Prima di Gertrude Stein, fu Berthe Potter Palmer a sconvolgere il mondo dell’arte. Bella, dotata di un marito adorante e ricchissimo e, di un vitino di vespa che fasciava in elaborati abiti di Worth, Berthe Potter Palmer alla fine del secolo scorso fu la regina della società di Chicago. Quando fu nominata presidente del Padiglione delle donne, per la World Columbian Exposition del 1893, conobbe un successo personale tale da intrattenere rapporti con molte Corti europee. Giudicata l’acme del lusso (l’interno delle vetture esposte era arredato in stile Luigi XIV), la grande Esposizione conteneva una sezione “Capolavori stranieri di collezionisti americani.

Vi erano rappresentati molti maestri del Rinascimento. Ma anche artisti di quel gusto “francese moderno”che iniziava a diffondersi nelle case delle famiglie ricche di Boston, Chicago e Philadelphia. Quasi inutile aggiungere che le tele capaci di destare maggiore scalpore furono quelle degli Impressionisti della collezione Potter Palmer, i Monet, i Renoir, i Degas che Berte Potter aveva acquistato a Parigi. Senza badare al numero. I Monet di Berte erano talmente tanti che se ne serviva addirittura per decorare le intere pareti del salone da ballo della sua casa castello.

Ma la più stravagante collezionista americana non è Berthe Potter. A contenderle il titolo è una newyorkese: Isabella Stewart Gardner, catapultata per matrimonio, negli anni Ottanta del secolo scorso, nel cuore della più tradizionale buona società di Boston. La Gardner, non bella ma estremamente seducente, “dissipatrice malinconica”, vestiva gli stessi abiti di Worth, della sua rivale di Chicago. Nella maggior parte degli uomini che conobbe lasciò sentimento di nostalgia e di ammirazione, come testimoniano le molte lettere conservate. Forte della posizione sociale del marito, si concesse comportamenti che furono la gioia dei giornali dell’epoca. Affittò una locomotiva e la guidò a ottanta chilometri all’ora assieme al marito, per raggiungere gli amici a un picnic, si presentò a un concerto con il distintivo dei Red Socks, la sua squadra di baseball preferita, nel tempo libero girava per lo Zoo di Boston con un leone al guinzaglio.

Come tutti, aveva in casa dei Corot, degli Whistler e ancora dei Millet e dei Sargent. Ma, come accadde a Gertrude Stein, l’incontro della sua vita fu quello con Bernhard Berenson, che Isabelle aveva aiutato e mantenuto per qualche tempo in Europa. Fu lui, autore dei celebri “elenchi”, a guidarla tra i tesori dell’arte rinascimentale, assicurandosi però una percentuale del cinque per cento sugli acquisti. Fu sempre lui a procurarle il primo Botticelli e, poi Tiziano e, Velàzquez e Simone Martini.

I due erano legati da un rapporto di amore e odio, tutti e due prepotenti e vanitosissimi, l’uno forte dei suoi studi, l’altra di un certo innato gusto per la qualità: lui la blandiva paragonandola a Isabella d’Este, lei diventava sempre più sospettosa per ogni acquisto. Ma era lei ad avere più bisogno di lui. Innamorata dal 1884 di Venezia, dove era ospite dei Curtis a palazzo Barbaro, in una girandola di amici e ammiratori, come i pittori Anders Zorn e John Singer Sargent, che la dipingeranno in magnifici ritratti, Isabelle Stewart Gardner aveva cominciato a pensare a una casa museo per la sua collezione. Alla morte del marito si dedicò anima e corpo all’impresa. Fenway Court fu inaugurata la sera dell’ultimo dell’anno 1902, ma il visitatore che si reca oggi a Boston, troverà tutto esattamente come volle disporlo la sua creatrice, edificando un’incredibile, sensazionale monumento a se stessa.

Possano queste significative figure di un passato recente valere da esempio, da stimolo, da incoraggiamento per tutte le giovani collezioniste ed esperte d’arte del nostro stupendo e bizzarro Paese, ovvero l’Italia, dove stanno succedendo cose e fatti sempre più avvilenti in materia d’esposizioni e di mostre: a quanto pare (con enorme rammarico per la sottoscritta e per quanti amano la Bellezza) si risponde solo al principio del “batter cassa e numeri”, dimenticando di valorizzare e promuovere l’Arte in senso più nobilmente culturale. Ed allora ribelliamoci, miei carissimi Amici: il vile denaro non più contaminare e strumentalizzare il Bello artistico!! Vostra Elena P.

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