Lunga vita ai magnifici sovversivi del Surrealismo.

René Magritte gli amanti

Era stata una giornata pesante, l’ufficio, il traffico, la cena, ma alla fine, su un cielo nerissimo, erano spuntate affascinanti la luna e le sorelle stelle. Ancora qualche minuto, poi finalmente il meritato riposo, tra le coperte già calde. Giusto il tempo di svitare la testa, appoggiarla sul comodino, senza dimenticare di chiudere le cerniere degli occhi. E adesso sì, sognare, finalmente liberi. Un attimo e, dietro le pupille sigillate dalle zip, era apparso il vapore bianco di un treno, che sbuffava a mezz’aria dalla bocca di un camino. Poco più in là, una medusa viola e d’argento sfiorava i resti di un naufragio e, dietro un enorme ramo di corallo, si muoveva senza vita un corpo di donna e, all’inizio delle sue gambe affusolate un occhio, dalle ciglia lunghissime, contemplava la pace di quello strano paesaggio…

Ecco, miei fedelissimi lettori, non accendete la luce simbolica della veglia, giacché vi ho appena descritto il sogno-dipinto del pittore surrealista Jean Arp, che insieme ai “magnifici sovversivi” René Magritte, Salvador Dalì, Joan Mirò, Max Ernst, Man Ray e, per certi aspetti, Pablo Picasso, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Tanguy, sconvolsero la storia dell’arte del XX secolo, illuminando, con il Surrealismo, i trent’anni più effervescenti e, mai troppo rimpianti, nel Novecento.

Un trentennio rivoluzionario, che proclamò nel 1919 una nuova libertà di parola, quella “automatica” dei Campi Magnetici di André Breton, il teorico del movimento e di Soupault e, si chiuse negli anni 50, oltre oceano a New York, tra le colature pregnanti di Jackson Pollock, ultimo erede di quella drammatica vitalità. Non una morte per il movimento, impossibile per chi ha trasformato il sogno in sistema di vita, in pienezza espressiva, ma una resurrezione continua, che oggi, all’alba del Terzo Millennio, alimenta la velocità onirica dei videoclip, il gusto dell’assurdo nella migliore pubblicità e, il folgorante doppio gioco nelle forme del nuovo design. Neppure André Breton, esordio nella corrente Dada, poi carismatica guida dei surrealisti e, per trent’anni infaticabile provocatore, aveva mai sperato in un effetto così duraturo e, in così tanti figli artistici per il movimento. Chi poteva immaginare che quelle prime riflessioni sull’automatismo delle parole, quei campi magnetici che attiravano in superficie le verità del profondo, avrebbero sconvolto le sorti della poesia moderna. E, per simpatia elettrica, anche i destini della pittura, della fotografia, del cinema, del teatro, persino dell’amore, necessariamente “fou”, ossia folle, sbrigliato da regole e convenzioni.

Dettato dal pensiero in libertà, in assenza di qualsiasi vincolo esercitato solo dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale, il Surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore (da qui deriva il termine “surrealismo”, letteralmente “sopra la realtà“), connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno e sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare, definitivamente, tutti gli altri meccanismi psichici, quelli della coscienza ed, a sostituirsi ad essi, nella risoluzione dei principali problemi della vita. Il movimento raccoglieva intuizioni e spunti, presenti nel romanticismo francese e tedesco e nella pittura simbolista, ma soprattutto ereditava la carica di ribellione e di dissacrazione del dadaismo, ponendosi, così, come l’ultima delle Avanguardie storiche del Novecento.

Abbondante e diversificata, la produzione artistica surrealista resiste ad ogni inquadramento rigido. I temi del meraviglioso, della sensualità, dell’humor nero, della verità sotto le apparenze appaiono tra le fonti ispirative più ricorrrenti. Nel suo ambito sembrano delinearsi due direzioni stilistiche essenziali: da una parte, una sorta di realismo ipnotico, vissuto e rappresentato in una prospettiva illusionista, dominata da creazioni estranee e da creature metamorfosizzate, come ben evidenziano i quadri-collages di Max Ernst, i paesaggi sconfinati di Tanguy, le piazze inquietanti e deserte di De Chirico, le allucinazioni di Dalì, che dà voce all’inconscio di natura freudiana, le speculazioni fantastiche sull’irrealtà di Magritte; dall’altra parte, una tendenza a lavorare sulla forma e sulla materia in maniera astratta e sfumata, come dimostrano i disegni di Mirò.

Una visione e un sistema di vita totale, estremo, dunque, come lo era stato qualche anno prima per i Futuristi italiani: una corrente che ineggiava alla libertà creativa, la quale aveva bisogno, paradossalmente, di regole descrittive, di proclami, di riviste, persino di “genitori” autorevoli, per diffondere la sua rivolta. E così, il primo Manifesto Surrealista apparve nel 1924, con una presentazione, nei perfetti toni di profezia pubblicitaria. Scrive nel comunicato Raymond Queneau: “Siamo gli specialisti della rivolta. Non c’è mezzo d’azione che non siamo capaci, all’occorrenza, di utilizzare”; quindi descrizione del prodotto artistico…”Il Surrealismo non è un mezzo d’espressione nuovo o più facile e, neppure una metafisica della poesia: è un mezzo per la liberazione totale dello spirito e, di tutto ciò che è affine allo spirito”; avvertimento finale di Raymond…”Se occorre, frantumeremo le pastoie dello spirito con martelli materiali”. E se è vero che non ci fu mai bisogno di tanta violenza, fatta eccezione per qualche simpatica rissa, è innegabile che la forza dirompente dei Surrealisti sia riuscita a cancellare secoli di “arroganza razionalista”.

Nel 1921 Man Ray, uno dei padri del Surrealismo scopre la visione automatica, indipendente, dei “Rayogramme”: basta appoggiare un oggetto direttamente sul foglio di carta fotografica e, la sua forma, il suo fantasma rimane impresso in un profilo d’argento. La bocca sottile, perfetta dell’amore più intenso della sua vita, la dolce Lee Miller, viene ripetutamente fotografata da Ray, non come una semplice parte del corpo, ma come l’ingresso in una terra misteriosa, da esplorare senza paura. Le sue labbra, più volte, vengono ritratte come una nuvola rossa, immensa e dispersa in un cielo azzurro e, nella logica sensuale del desiderio surrealista, da quelle labbra color fuoco sarebbe discesa sulla vita, sul mondo, su tutti gli amanti liberi, una pioggia di baci. Nel 1925, André Breton, nel saggio “Il Surrealismo e la Pittura”, scrive…”Comincio a vedere ciò che non è visibile”.

Nel 1928 i grandi spagnoli, Luis Bunuel e Salvador Dalì, dirigono insieme il film “Un cane andaluso”: una sorta di sequenza storica, l’alba di ogni incubo, un leitmotiv potente che scandisce paure e timori, chiusi dentro gli angoli più profondi delll’anima. Ecco, in un tremito di fotogrammi lattiginosi, appare una nuvola che divide il cerchio della luna e, un attimo dopo un rasoio, con la stessa “amorevole” leggerezza, taglia in due la pupilla di un occhio. Straordinariamente libero ed arguto, Dalì offre un’interpretazione tutta personale del surrealismo, caratterizzata da quello che egli stesso definisce un “metodo paranoico-critico”, fondamento di una pittura, che porta a galla gli “incubi”, i nodi psicanalitici che la coscienza non vuole riconoscere ed accettare: portando in superficie i timori e rappresentandoli, Dalì esorcizza, svuota d’ipocrisia le ombre della vita. I suoi dipinti offrono sublimi risultati, virtuosisticamente illusionistici, contraddistinti da incongrui e sorprendenti accostamenti di figure, cose, situazioni, in una dimensione visionaria ed onirica: all’apparenza nulla centra con il resto; in realtà, sotto la superficie, si muove la Verità, spesso inspiegabile ed assurda, proprio come la pittura strepitosa dell’Enchantador Dalì.

Dopo “L’intepretazione dei sogni”, opera capitale di Sigmund Freud, gli occhi degli artisti contemplano nuovi orizzonti dell’anima. Un taglio netto, senza dubbio, ma non c’è dolore per i surrealisti e, neppure voglia di guarigione: il sogno è una via d’accesso ad un’altra dimensione, non il sintomo di una sofferenza; gli incubi sono le paure mostruose che si materializzano, da combattere, giammai da nascondere. Breton ama Freud, ma a modo suo. E, nell’oscurità, nella notte dell’Illuminismo e del Romanticismo, i surrealisti riscoprono le loro origini. Come fantasmi evocati in una seduta spiritica (e, guarda caso, Breton adorava medium, sfere di cristallo e tarocchi) appaiono il Marchese De Sade e il suo lucidissimo sadismo e, poi Lautréamont. Rimbaud e la sua follia di vita con quel perfetto slogan… “Io sono io ed un altro” diventa un eroe per i surrealisti. E ancora, nel filone più popolare della letteratura, ritornano in voga i romanzi “noir” dell’Ottocento, imbevuti di tenebre, sogni, visioni, deliri, passeggiate nel nulla e, sguardi melanconici, rivolti all’infinito. La sintesi esatta della volontà surrealista sta tutta nel proverbio, firmato Aragon, ovvero…”Chi va là? Ah benissimo, fate entrare l’infinito”. Ma non basta il motto di spirito, quel corto circuito che unisce estremi lontani e, li deforma nella velocità del pensiero moderno.

I surrealisti vogliono e cercano di più: lo choc, l’epifania, la violenza di un’immagine folle, dipinta come vera. Con una virata poderosa, che azzera le ragioni dell’astrattismo, i pittori surrealisti tornano alla figurazione. I sogni, aveva soperto Breton sulle orme di Freud, generano prima di tutto immagini, dai contorni chiari e dai significati oscuri. E come tali vanno rappresentati. Di più, permettendosi il lusso del virtuosismo pittorico e della più totale libertà tecnica. Nascono così gli universi paralleli di Max Ernst, con i suoi collages di creature terribili, uomini ed animali e realtà incomprensibili. E così i corpi smembrati e a cassetti di Dalì e, il Minotauro di Picasso, in quell’eccesso di orrore e di potenza, tanto cara ai rivoluzionari del Novecento. E ancora i mondi sommersi ed alieni di Tanguy, i cieli onirici di Mirò e i paesaggi misteriosi, le figure enigmatiche di Magritte, che riportano in vita e divulgano i misteri metafisici di De Chirico, un padre, un maestro per tutti i surrealisti.

Il belga Magritte prende le mosse dalla spazialità metafisica, dai manichini e dalle muse inquietanti dell’insuperabile Ispiratore delle ombre e, dal suo ricorso all’associazione imprevedibile di elementi senza rapporto logico tra loro, per produrre un’atmosfera di straniamento e di mistero: si osservi l’incantevole dipinto ad olio, dal titolo “Gli amanti”, scelto come introduzione visiva all’articolo; ebbene l’immagine meravigliosa, pregna di poesia e di abbandono, rieccheggia il conoscersi e il non conoscersi, inevitabilmente due realtà inseparabili, che da sempre accompagnano le creature che si amano, le quali presumono di appartenersi, pur nella loro intima e disperante diversità, simboleggiata dal velo coprente sui visi. E come non dimenticare l’assurda morbidezza di una tazza e di un cucchiaio foderati di pelliccia: un sogno, un desiderio, certo non un incubo per l’artista Meter Oppenheim, uno stato di grazia, semmai, o con maggior senso pratico, un nuovo mercato.

“Non abbiate paura” scrivono i surrealisti su un volantino del 1924: “Genitori! Raccontate i vostri sogni ai vostri figli” e “se volete imparare la scrittura e l’espressione surrealista”, prosegue il foglietto…”Venite nei nostri “uffici di ricerca” al numero 15 di rue Grenelle”!! Era l’alba del 1924 e a Parigi, proprio in quella via, rue Grenelle, nasceva la stupenda follia dell’avanguardia Surrealista, che scosse il mondo artistico dall’ipocrisia e dalla viltà. Dio solo sa, carissimi surrealisti, quanto sareste piaciuti al Genio Assoluto della Verità: Michelangelo Merisi, lo Sciamano di Cristo, il Caravaggio delle eterne meraviglie!! A bientot! Vostra Elena P.

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