Quando si pensa ad Anton van Dyck (Anversa 1599-Londra 1641) è inevitabile che venga alla mente il nome di Peter Paul Rubens. “Comparaison n’est pas raison”, dicono i francesi: ma è pur vero che la prepotente personalità del maestro di Siegen ha, semplicemente, dominato su tutta l’arte fiamminga della prima metà del Seicento, tanto da condizionare inevitabilmente con la sua potenza, la sua vitalità creativa, la vigoria stessa delle sue opere (una vera e propria forza della natura), il nostro modo di accostarci al più giovane artista. Rubens e Van Dyck sono stati spesso paragonati al Sole e alla Luna, ma il confronto non è del tutto esatto, dal momento che l’opera vandyckiana non può certo essere considerata unicamente l’immediato riflesso di quella del grande maestro.
Tuttavia, quando c’è “chi regna incontrastato”, gli altri finiscono sempre con l’incontrare maggiori difficoltà nell’affermarsi e, a tale proposito basti pensare alla rivalità esistente fra Shakespeare e Ben Johnson: se non vi fosse stato il primo, con tutta la sua grandezza, il secondo avrebbe primeggiato nel teatro moderno. Analogamente la sfortuna di Van Dyck è stata quella di nascere nella stessa epoca di Rubens e, di essere quindi sempre giudicato alla luce di quel genio esuberante, mentre in altre circostanze avrebbe potuto imporsi come protagonista nel suo campo. Van Dyck fu artista versatile e multiforme. Noto soprattutto per i suoi ritratti (grazie ai quali si conquistò un indiscusso primato come interprete abile, raffinato ed elegante dei personaggi che posarono per lui), egli raggiunse risultati eccellenti anche nella pittura di carattere religioso.
Quanto alle composizioni di natura mitologica e storica, minore è il numero delle opere giunte fino a noi. Laddove Rubens dominò con la sua potenza e il suo disinvolto dinamismo, Van Dyck si distinse- salvo che durante gli anni del suo apprendistato all’ombra del grande maestro- per il suo splendore quasi nevrotico e una certa inclinazione, tutta manieristica, verso il preziosismo. Per tutta la vita egli tentò vie sempre diverse, dalla spontaneità un po’ ingenua all’adattamento dello stile rubensiano, dal recupero di elementi tipicamente italiani alla plasticità fiamminga, fino a concludere il suo ultimo periodo inglese come pittore di corte, decorativo e rivolto nuovamente ai modi espressivi del manierismo; senza dimenticare, beninteso, le profetiche anticipazioni del Rococò riscontrabili nelle sue ultime opere.
La fama e la rinomanza gli vennero assai presto e, la sua influenza come ritrattista durò a lungo. E mentre lo stile di Rubens era destinato ad estinguersi con il maestro, quello di Van Dyck è sopravvissuto alla morte dell’artista. In un certo senso, Van Dick potrebbe essere definito il Mozart della pittura. Era nato ad Anversa il 22 marzo 1599, da un’agiata famiglia di mercanti. Il padre, Frans, si dedicava al commercio delle sete e d’altre stoffe: la madre, Maria Cupers, sposata in seconde nozze e morta quando l’artista aveva appena otto anni, è ricordata per la sua abilità nel lavoro di tessitura e ricamo degli arazzi. Settimo di dodici figli, molti dei quali vestirono l’abito monastico, Van Dyck ricevette una buona educazione e a undici anni, nel 1609-10, venne accolto come apprendista nella bottega di Hendrik van Balen, allora “Opperdeken” della Gilda di San Luca, dove, tra gli altri giovani discepoli, era anche Justus Sustermans.
Van Dyck dimostrò ben presto la sua precocità. Nel 1613, appena quattordicenne, firmava “Ritratto di vecchio”, oggi conservato nei Musèes Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. Un anno dopo dipingeva il piccolo e straordinario “Autoritratto” dell’Akademie di Vienna e, a sedici anni apriva un proprio studio nella casa denominata “eden Dom van Keulen”. E’ probabile che già allora egli avesse lasciato la bottega di Van Balen e, a questa collaborazione si devono alcune opere di grande interesse come, per esempio, la serie degli Apostoli di Aschaffenburg. Lo stile vandickiano di quegli anni è in genere definito “schietto”, “spigliato”, “grezzo” e, si caratterizza per una certa pesantezza, la sobrietà dell’impianto cromatico e un disegno plastico e pacato. L’artista, del resto, continuò ad esprimersi secondo questa maniera, anche dopo essere entrato nella sfera dall’influenza di Rubens, intorno al 1615, quando cominciò a far proprio il barocchismo delle opere del maestro.
Le sue primissime composizioni s’impongono infatti per la loro fedele riproduzione della natura e l’acerbo naturalismo mescolato a richiami jordaeneschi e, di ciò è significativo esempio il “Sileno ebbro” di Bruxelles, nel quale la figura del Bacco è centrale e organizza tutta l’opera intorno al suo corpo dai lineamenti vigorosi e dai contorni marcati. L’influsso di Rubens appare viceversa evidente nel “Giove e Antiope” di Gand, nel quale la figura di Antiope è resa con una pittura uniforme e vellutata, secondo una tecnica che ricorda il più tradizionale periodo rubensiano del 1611-14, con la sua maniera levigata ed elegante. Sui rapporti fra Rubens e Van Dyck si sono accese infinite controversie: alcuni hanno infatti sostenuto che Van Dyck fosse stato in quel tempo discepolo del più anziano maestro, mentre altri riducono questo legame a una semplice collaborazione. Tutti i cronisti più importanti, dal Bellori in poi, sono concordi nell’affermare che Van Dyck fu allievo di Rubens, il quale, con le sue lezioni, consentì lo sviluppo di quel giovane talento.
Si presume che l’alunnato risalga all’incirca al 1615, divenne ancor più stretta verso il 1618-20 ed ebbe fine più o meno al tempo del primo soggiorno inglese di Van Dyck. Parecchie composizioni rubensiane furono probabilmente eseguite in parte o interamente da Van Dyck: basti pensare alla serie di “Decio Mure”, per la quale il giovane artista redasse i cartoni e dipinse le tele. Lo stesso Rubens, del resto, scrivendo nel 1618 a sir Dudley Carleton per offrirgli alcune tele, parla di una di queste come di “un quadro di un Achillo vestito di donna fatto dal meglior mio disvipolo, et tutto ritocco de mia mano, quadro vaghissimo e pieno di molte fanciulle bellissime”. Tutto lascia pensare che con la frase “del miglior discepolo” Rubens si riferisca proprio a Van Dyck. Intorno al 1617 Van Dyck dipinge il “Gesù guarisce il paralitico”, oggi nelle collezioni dei reali inglesi, altra opera ancora chiaramente imbevuta di motivi rubensiani. In precedenza, anzi, era stata attribuita allo stesso Rubens, ma in seguito tale giudizio è stato corretto: in effetti, sebbene nel trattamento dello spazio, nella composizione generale e nelle figure traspaia nitidamente la concezione pittorica del più anziano maestro, la personalità vandyckiana appare con tutta evidenza nell’nterpretazione generale del soggetto.
All’incirca in quegli anni la pittura di Rubens, da quieta e distesa che era, sembra passare a una più vivace applicazione del colore, che si fa più leggero all’interno di una visione complessivamente più barocca. Van Dyck sembra aderire a questa evoluzione, accostandosi a una maniera diversa, giganteggiante di corpi muscolosi, più profonda nei chiaroscuri e variegata in una calda gamma cromatica che si avvicina allo splendore dell’arte veneziana. I suoi ritratti, però presentano uno sviluppo più sobrio e severo. I personaggi effigiati esprimono tutta la loro individualità, anzichè rientrare nella genericità di una tipologia indifferenziata, come viceversa avviene nelle opere di Rubens e, nell’ambito di questa sua maniera Van Dyck si dimostra interprete serio e fedele delle diverse personalità. Tutt’altro che semplice illustratore, egli riversa su quelle figure tutto il fascino del suo atteggiamento cortese. Nel 1620 Van Dyck viene convinto a recarsi per la prima volta all’estero. La meta è fin d’ora l’Inghilterra e, in genere si ritiene che ad invitarlo alla corte di Giacomo I sia stato il conte Arundel, ritratto due volte dall’artista.
E’a questo periodo che con tutta probabilità risale “La continenza di Scipione” del Christ Church di Oxford. Il soggiorno inglese è comunque brevissimo e, nel febbraio del 1621 l’artista è di nuovo ad Anversa. Sui motivi della sua affrettata partenza e sulle opere completate in quel periodo sono state avanzate molte ipotesi. Risulta comunque che il sovrano inglese gli versò 100 sterline per lo “speciale servigio da lui reso”, probabilmente quadri seguiti in quella occasione. Van Dyck rimase ad Anversa sette mesi. Negli ultimi tempi era stato sempre più attirato nell’orbita dei maestri italiani, soprattutto Tiziano e Tintoretto. Non sono pochi i ritratti di quegli anni ce denunciano, come quelli di Frans Snyders e di sua moglie Margarete de Vos, la loro derivazione dai modelli dell’arte italiana. Verso la fine della sua permanenza ad Anversa, il colore della sua pittura si era fatto più libero e decorativo. Le tinte diventano candide e schiette, i rossi, privi di lucro, si rafforzano, gli incarnati acquistano toni bruni e le ombre appaiono qua e là come opache. C’è insomma in quelle opere una singolare libertà, un indulgere sulle pennellate lunghe e sinuose, un senso di creatività e insieme di audacia.
A questo periodo risalgono gli Autoritratti nell’Ermitage di Leningrado, dell’Alte Pinakothek di Monaco e del Metropolitan Museum di New York, tutte opere che si staccano nettamente dall’abituale stile ritrattistico fiammingo e che si distinguono per il maggior vigore, un impasto più pesante e una freschezza che ne fa delle creazioni assolutamente straordinarie, sia per quel periodo, che perchè frutto dell’arte di un così giovane maestro. Nel 1621 Van Dyck partiva alla volta dell’Italia, fermandosi a Genova presso i fratelli Lucas e Cornelis de Wael. Il soggiorno genovese durerà fino al 1626, inframmezzato da numerosi viaggi in varie regioni italiane. Nel febbraio 1622 l’artista è a Roma, dove dipinge il ritratto di Francois Duquesnoy e quelli di Robert Shirley e di sua moglie Theresa Shirley. Dopo alcuni mesi parte alla volta di Firenze, dove viene ricevuto da Lorenzo dè Medici e, di qui si reca a Bologna e, infine a Venezia.
Rientra a Roma l’anno dopo e, a quell’epoca risale il famoso ritratto del Cardinale Bentivoglio, che i contemporanei definirono subito “una meraviglia dell’arte” e che gli valse un seguito d’imitatori, dal momento che Gaulli, Maratta e altri fra i pi autorevoli pittori romani lo assunsero come modello da seguire. Rientrato a Genova vi rimane per circa un anno, dipingendo parecchi ritratti ma anche varie tele di carattere mitologico e religioso, finchè nel 1624 il vicerè di Sicilia, Emanuele Filiberto di Savoia, non lo chiama a Palermo. Tuttavia il soggiorno di Van Dick sull’isola non potrà prolungarsi molto a causa della peste scoppiata in maggio. L’artista potrà dipingere il ritratto del vicerè e, anche quello di “Sofonisba Anguissola”, la celebre pittrice morta in quell’anno, oltre a varie altre tele fra le quali restò incompiuta la Madonna del Rosario, ultimata a Genova. Sulla misura in cui il maestro fiammingo subì l’influsso dell’arte italiana le opinioni sono tuttora contrastanti. Non c’è dubbio che egli abbia assorbito non poco delle forme, dei colori e degli stessi tipi fisici italiani. Per dirla con Gluck, egli “respira aria italiana”.
Tuttavia, come si è visto, Van Dyck aveva già avuto modo di familiarizzarsi con quei modelli, che facevano ormai parte delle sue concezioni stilistiche di quegli anni. Inoltre, la sua personalità era così spiccata che, pur assimilando i modi dell’arte italiana, egli conservò pur sempre la sua fisionomia originale. Per esempio, in una delle prime opere eseguite in Italia, la Susanna e i secchioni di Monaco, il linguaggio formale appartiene al Tintoretto e, tuttavia il contenuto del dipinto appare del tutto diverso. Mentre infatti gli italiani trattavano quel tema nell’ambito di una visione idilliaca, Van Dyck lo affronta con crescente realismo. I secchioni compaiono al centro dello spazio visivo, mentre Susanna, disperata, difende la sua virtù. C’è nella tela il dramma e l’azione, sia nella forma che nel movimento, con quella figura di donna disperata per la violazione della sua intimità da parte dei due vecchi lascivi. Quanto allo sfondo, esso appare appena accennato, secondo la concezione che tendeva a concentrare tutta l’attenzione dell’osservatore sull’evento, mentre i maestri trado-rinascimentali- Tintoretto appunto- lo distraevano con impianti compositivi di carattere quasi scenografico.
Una tra le più belle opere vandyckiane di questo periodo è la Madonna col bambino e una greppia, di solito denominata, secondo l’uso italiano, Il presepio. L’autenticità del dipinto è confermata dalla documentazione contemporanea. Il suo sapore italianeggiante ha dato luogo a tutta una serie di confronti, come quello del Quintavalle che lo accosta alla Madonna col Bambino di Parma. Tuttavia Il presepio deve assai più alla scuola parmigiana e specificamente al Correggio. Per esempio ci sono forti somiglianze con la Madonna del canestro, dipinta dall’artista e conservata oggi nella Natonal Gallery di Londra. E’– pur vero che nella tela di Van Dyck il fascio di fieno è reso con un impasto denso e piatto, che ricorda in certo modo l’Adorazione dei Magi di Rubens ad Anversa. Ma in altri punti il dipinto romano resta tenero e diafano come un vero Correggio, i contorni, il disegno, l’intera composizione denunciano tutta l’italianità dell’impianto e, lo stesso può dirsi a proposito del cromatismo tenue e attutito. Ogni intrinseco tratto pittorico si è adattato alla visione italiana, alla quale si è adeguata perfino l’interpretazione del tema. Perciò questo dipinto può considerarsi uno dei più significativi esempi dell’adozione e dell’adattamento, da parte di Van Dyck, del linguaggio formale dell’arte italiana.
Il più importante dipinto di natura religiosa risalente al soggiorno italiano dell’artista è la Madonna del Rosario, eseguito in parte a Palermo e in parte a Genova, dove Van Dyck era tornato fuggendo dalla peste, che infuriava nella città siciliana, per essere infine ultimato nelle Fiandre. Sotto il profilo stilistico si tratta di un’opera che si rifà ampiamente alla Circoncisione di Rubens, conservata in Sant’Ambrogio a Genova e, anche, sia pure indirettamente, alla maniera di Otto van Veen, che era stato l’ultimo maestro dello stesso Rubens e, che aveva studiato a sua volta in Italia. Non è da escludere, anzi, che a lui si possano ricondurre certi spunti di ascendenza bolognese, assimilati durante il soggiorno romano e, alcuni aspetti che potrebbero esser fatti risalire direttamente ai Carracci. Non c’è dubbio, comunque, che la Madonna del Rosario costituisca un importante esito dell’arte barocca, nel suo adattamento dei motivi italianeggianti allo stile e all’espressione tipici della pittura nordica. Le allungate figure dei santi, con la Madonna che tiene il Bambino nel grembo, seduta in mezzo a molteplici putti sotto un arco a tutto sesto, sullo sfondo centrale di un cielo luminoso e chiazzato di nubi, compongono nell’insieme una scena animata e vivace.
Lo stile di Van Dyck, nonostante gli evidenti richiami ad altri maestri, appare qui di una spiccata originalità e, la personalità dell’artista s’impone proprio per il carattere quanto mai individuale della sua creazione. Al solito, gran parte delle opere dipinte da Van Dyck in Italia è costituito da ritratti. Anche in questo campo, però, la maniera fiamminga si fonde con i modi più tipici dell’arte italiana. In effetti, l’artista elaborò proprio in questo periodo un suo stile personale, basato sulla ritrattistica genovese del Rubens, che avrebbe alla fine riscosso tanto successo. Tuttavia la tendenza fiamminga rimase diffusa in tutti i dipinti del periodo italiano: basti pensare non solo ai primi ritratti, ma in generale alle opere prodotte nel corso di tutto quel soggiorno in Italia, come il ritratto dello scultore Francois Duquesnoy, di un altro scultore, Georg Petel e, dell’incisore Jean Leclerc. Un miscuglio di motivi italiani e di solidità nordica traspare anche nel ritratto del Principe Emanuele Filiberto di Savoia, vicerè di Sicilia, dipinto a Palermo nel 1624 e destinato probabilmente, a giudicare dalla posa ufficiale dell’effigiato, a una funzione di rappresentanza.
Da Venezia ci sono giunti due ritratti, oggi appartenenti rispettivamente al Metropolitan Museum di NeW York e al museo di Braunschweig, di un amatore variamente identificato in “Lucas van Uffel”, o “Daniel Nys”. Quale che sia l’identità del personaggio, è certo che si tratta di un nordico stabilitosi nella Serenissima e col quale Van Dyck intrattenne stretti rapporti. Il ritratto del Metropolitan Museum mostra l’effigiato a figura quasi intera, con le sue mani dalle dita affusolate e un portamento altero, seduto su una sedia accanto a un tavolo su cui si distingue un globo e la scultura di una testa, probabile imitazione di un antico busto a opera di Francois Duquesnoy. Il dipinto si distingue per i suoi contorni spezzati e il trattamento dei colori, mentre il disegno si richiama esplicitamente ai modelli veneziani. L’opera appare imbevuta di un’eleganza e una raffinatezza di certo fiamminghe, con la sua insistenza sulle vivaci lumeggiature nella parte sinistra dello sfondo. Nell’insieme, l’inclinazione personale di Van Dyck per una pittura di grande distinzione appare qui tradursi in termini italianeggianti e, lo stesso può dirsi per il secondo ritratto del personaggio, quello di Braunschweig, eseguito a mio giudizio all’incirca nel medesimo periodo e, nel quale lo sfondo alquanto uniforme del primo è rimpiazzato da una vivacissima marina, colta di scorcio al di sopra della balaustra sulla destra.
Il ritratto del cardinale Bentivoglio può essere a buon diritto considerato la creazione più splendida e rilevante perchè l’artista ha qui dato vita a un dipinto davvero originale, nel senso che, quantunque intrinsecamente italiano, esso non si richiama ad alcun modello, nè s’ispira ad analoghe concezione pittoriche d’altri. Tutto a un tratto, Van Dick si trasforma in un “intellettuale” italiano, concentrando in sè l’essenza stessa dell’arte meridionale per trasfonderla in una maniera che risulta del tutto estranea alla sua preparazione precedente, assorbendo tendenze e modi tipicamente peninsulari. Giorgione e Tiziano avevano abituato il loro pubblico a un netto isolamento delle figure, lasciando lo sfondo appena accennato. In quest’opera, si direbbe che Van Dyck abbia mutato paese d’origine, assorbendo in sè tutta l’essenza della sua nuova patria. A Genova Van Dyck dipinse una quantità di ritratti e, si è anche avanzata l’ipotesi che proprio nella città ligure egli abbia maggiormente avvertito l’influsso della pittura rubensiana.
E’ certo che egli aveva ben impresso nella mente il formato ideato dal maestro più anziano e, anche i suoi mecenati, che presumibilmente possedevano nelle loro gallerie ritratti di consanguinei eseguiti da Rubens, gli richiedevano con tutta probabilità nuovi quadri, eseguiti secondo quei canoni stilistici. Van Dyck si rifece decisamente ai modelli rubensiani, soprattutto in relazione al loro aspetto esteriore, alla sagoma delle tele marcatamente lunghe e strette e, al modo estremamente decorativo di presentare i personaggi effigiati. Nei contorni, però, egli appare più etereo, come si vede ad esempio nel ritratto della “Marchesa Caterina Durazzo” del Palazzo reale di Genova, dove la figura della donna appare più slanciata e raffinata. In effetti, a confronto con la densità e la potenza rubensiane, l’impianto pittorico vandyckiano colpisce proprio ora per la sua semplicità , risulta più illustrativo e decorativo, senza la ponderosità del maestro fiammingo. Nel colore egli segue le orme dell’artista più anziano, fatta eccezione per quella striscia luminosa di cielo, che appare, di tanto in tanto, nelle sue opere e, naturalmente, per l’incarnato dei volti e delle mani, nonchè per le tinte degli abiti, che spiccano per la loro vivacità e rivelano la sottigliezza del suo senso cromatico.
Tuttavia è il carattere degli effigiati a venire prepotentemente in primo piano. La personalità artistica di Van Dyck si annulla davanti a quella, per esempio, della Marchesa, lasciando che siano i tratti essenziali della donna a trovare piena espressione nel dipinto. Così, noi la vediamo nella sua nobiltà, un po’ arrogante e in tutto e per tutto “gran dama”, mentre l’immagine dell’artista appare subordinata a quella del personaggio che egli alla fine idealizza in un tono minore, come artificioso. La sinfonia rubensiana si è tramutata in una sobria sonata vandyckiana! Vostra Elena P.
Esiste la fondazione o un museo di Van Dyck? Se esiste potrei avere l’indirizzo o riferimenti in merito?
grazie