La figura controversa e affascinante della Monaca di Monza

Domenica 25 novembre 1607 suor Virginia Maria de Leyva, che i posteri conosceranno come la Monaca di Monza ovvero la Gertrude dei “Promessi Sposi”, viene arrestata su ordine del cardinale Federico Borromeo, arcivescovo di Milano. Due giorni dopo comincerà il processo. Si susseguono i colpi di scena burocraticamente registrati negli atti: due principali complici fuggono, l’amante della monaca Gio. Paolo Osio (con cui concepì “un putto nato morto e una femmina”, violando la clausura) cercò di far sparire due delle scomode testimoni gettandone una nel Lambro e un’altra in un pozzo profondo fuori Monza. Di più: si ritrovano i resti di una ragazza assassinata dall’amante di Virginia Maria in precedenza, mentre lo stesso Osio dalla latitanza scrive una lettera al Borromeo per scagionare l’innamorata.

Intanto gl’interrogatori cominciano e Federico, man mano emergono i fatti, decide di abbandonare la sua posizione defilata, arrivando a chiedere al cardinal Mariano Perbenedetti di Camerino un vicario criminale estraneo al foro milanese, qualificato a trattare cause di stregoneria ed eresia. Entra così in scena Mamurio Lancillotto, un giurista implacabile che farà torturare la monaca e metterà a nudo i fatti. La sentenza non è lieve per una donna nobile che discendeva da banchieri che prestavano soldi ai papi e da aiutanti di campo del Re di Spagna: dovrà essere murata viva in una cella, larga tre braccia e lunga cinque (vale a dire 3 metri per 1.80 circa), con un solo pertugio nella parete che le avrebbe consentito di ricevere cibo e luce a sufficienza per recitare il breviario, isolata da tutti e senza alcun conforto umano. Il luogo prescelto è la Pia Casa delle Convertite di Santa Valeria a Milano, dove erano ospitate un centinaio tra prostitute pentite, monache colpevoli di gravi reati; insomma “peccatrici indotte alla pudicizia e alla castità” per propria scelta o per costrizione.

Su suor Virginia Maria cala il silenzio. Verrà interrotto solo tredici anni più tardi dal provvedimento di clemenza, con cui, il 25 settembre 1622, il muro che ostruisce l’entrata del suo camerino viene abbattuto e lei può rientrare nella comunità monastica di Sanata Valeria. Ed è a questo punto che i rapporti con Federico si riallacciano, grazie anche all’interesse che suscita la spiritualità di questa donna. A lei il cardinale chiede d’intrattenere dialoghi epistolari con quelle monache, che stanno attraversando momenti di debolezza o di crisi. In una di queste lettere, suor Virginia Maria rivela importanti annotazioni autobiografiche relative al periodo di “murata viva”. Molte missive tra le e il cardinale sono andate perdute, ma è certo che è in questo tempo, o comunque in un giorno dell’estate 1627, che prende forma l’idea di una biografia dal titolo significativo “Di una verace penitenza” (a cura di Ermanno Paccagnini, pp. 160, edizioni La Vita Felice, costo 9,30 €), all’interno di un volume che voleva raccogliere vite e storie esemplari) dedicata a questa donna eccezionale, che è rimasta chiusa nella sua cella tredici anni, tenendosi addosso gli stessi abiti del primo giorno.

Federico scrive in italiano, poi traduce in latino, lasciando in sospeso l’ipotesi di recuperare i documenti del loro rapporto, attendendo per la vera conclusione anche la morte della monaca. Nota, tra l’altro: “Nel principio della nuova vita, quando ella fece la sua confessione…le fu impresso incontamente un amor grande verso tutti quelli che erano stati esecutori dei suoi castighi e, singolarmente verso il giudice, stimando quello il maggior amico, ch’ella giamai avesse avuto, et havea sommo desiderio di ringraziarlo, e rammaricarsi di averlo contristato e turbato con le sue male opere, e desiderava di racquistare la sua gratia”. Si badi bene: il giudice è Federico medesimo. Si era creato un apporto di reciproca stima, indubbiamente spirituale, ma di difficile valutazione per noi oggi. Del resto, il Ripamonti che questa storia la conobbe molto bene, narrandola con minuzia di particolari, scrisse di lei: “E’facile comprendere come da quel corpo, da quella bocca, da quell’anima insieme colla verginità avesse preso commiato il pudore”.

Suor Virginia Maria de Leyva non consentirà a Federico di chiudere la biografia, ovviamente soltanto per motivi cronologici. Il porporato morì il 21 settembre 1631. Nemmeno il suo amante Osio, che aveva riconosciuto la figlia nata dal loro rapporto, potrà assistere alla fine: inseguito da un mandato di cattura che ordinava di squartarlo in tanti pezzi quanti delitti aveva commesso, verrà tradito da un amico e giustiziato poco dopo la fine del processo alla monaca. Lei, invece, sopravviverà alla peste del 1630 e nemmeno il Ripamonti, che nel 1643 scriverà le sue “Historiae patriae”, potrà dirci della sua fine, limitandosi a notare: “Vive tuttodì, curva, vecchierella, scarna, macilente, venerabile, cui difficilmente, a vederla qual è, ti figureresti che sia stata un tempo bella ed inonesta”.

Cancellata dall’albero genealogico di famiglia per opera del fratello, morirà soltanto il 7 gennaio 1650. Federico aveva ringraziato Dio di averla conosciuta. Le sue parole sono il commento più bello a questa vita fuori dall’ordinario: “Io non so esplicare con parole quanto io stimi alto questo spirito, e questa disposizione dell’animo quanto sia appresso di me ammirabile”. E vi lascio con un ricordo liceale: quando mi trovai narrativamente di fronte alla figura di suor Virginia nel capolavoro manzoniano, ricordo che pensai, d’istinto, non alla sua colpa, seppur evidente e scellerata, ma al fondo chiaroscurale della sua anima, dove la Signora, credo, si sentisse disperatamente spezzata e circoscritta, al pari di una rondine costretta a volare dentro un pozzo. Buona lettura!! Vostra Elena P.

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