Lingua tagliente, scrittura salace, personalità dissacrante: ecco a Voi il libellista Pietro Aretino!

Ritratto di Pietro Aretino, firmato dal Gigante TIZIANO!

Pietro Aretino nacque ad Arezzo nel 1492. Si dedicò, giovanissimo, alla pittura a Perugia, poi passò a Roma, dove divenne celebre per le sue “pasquinate” (brevi componimenti satirici e scandalistici, scritti in persona di “Pasquino”, cioè di una statua mutila, situata in una piazza di Roma, alla quale essi venivano appesi). Dal 1527 all’anno della sua morte (1556) visse a Venezia, dove, allora, si poteva godere di maggiore libertà di parola. Qui intrecciò una fervida amicizia culturale con Tiziano, che gli dedicherà uno splendido ritratto nel 1545 (oggi conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze) ed insieme al Sansovino e al Vecellio diede vita ad un brillante circolo artistico.

La sua figura interessa anche la storia del costume. Egli fu infatti uno scrittore libellista e ricattatore, che fece della sua penna un’arma temuta, vendendola al maggior offerente. Sovrani come Francesco I, Carlo V e il re d’Inghilterra, principi e cardinali compravano da lui una lode per sé e biasimi per i loro avversari ed, egli li serviva con spregiudicato cinismo, che a volte presentava come difesa della pubblica moralità e giustizia. Le sue “Lettere”, che egli stesso pubblicò fra il 37 e il 56, erano lette pubblicamente e da tutti ammirate (l’Ariosto gli diede il titolo, di cui egli si vantava, di “flagello dei principi”), e bastavano, com’egli dice, a fare spesso la fortuna o la disgrazia d’un uomo.

Questa attività non fu propria soltanto dell’Aretino, in quel tempo, ma di altri letterati libellisti di professione, quali Niccol Franco e Antonfrancesco Doni, per i quali lo scrivere fu mezzo di affermazione nella vita. Il loro successo attesta l’onore in cui erano tenuti allora lo scrittore e la parola scritta; che, inoltre, in quell’età d’incipiente assolutismo, svolgevano un’opera di propaganda politica, alla quale la stampa consentiva uno sviluppo ben più vasto e rapido di un tempo, cosa questa che spiega l’interesse dei sovrani nei loro confronti. La professione di libellista e, per così dire, di giornalista politico e scandalistico spiega i pregi e i limiti dell’opera dell’Aretino.

Fu uomo di vasta cultura, anche se non profonda, d’intelligenza e di sensibilità acuta, dotato di una vena nativa di scrittore, capace di esprimersi in modo concentrato ed incisivo. Il carattere della sua produzione gl’imponeva la ricerca non di classica compostezza, ma di uno stile “parlato”, rapido, fonato sulla frase acuminata e intelligente, sulla violenza polemica, sul sarcasmo sottile. Continui, per questo, e quasi sempre efficaci sono i suoi attacchi contro i letterati verbosi e magniloquenti, contro i pedanti, di cui egli schizza briose caricature. Mancano, d’altra parte, all’Aretino, la concentrazione e l’impegno del grande scrittore. La sua opera resta episodica e frammentaria, anche se comprende alcune fra le pagine più vivaci del secolo.

Oltre alle “Lettere”, l’Aretino scrisse anche una tragedia, “Orazia” e delle commedie (“Marescalco”, la “Cortigiana”, l””Ipocrito”, la “Talenta”, il “Filosofo”), che sono fra le più briose del tempo. Interessanti sono anche i “Ragionamenti”, immaginari dialoghi di meretrici, nei quali, a parte la soverchia e compiaciuta insistenza sull’osceno, si trovano pagine che rivelano nell’autore autentiche capacità d’artista. Alla prova dei fatti, l’Aretino racchiudeva il proprio equilibrio di mestierante diffamatorio, entro una più vasta cerchia di equilibri politici. L’appoggio dato all’uno e poi all’altro dei numerosi contendenti europei (in specie tra Carlo V e Francesco I) segna il variare della sua posizione pratica rispetto all’uno e all’altro e, il modificarsi delle sue opportunità, ma vi si può scorgere una ragione tra quelle di un più generale equilibrio europeo.

Nell’Aretino si riflettono le necessità dell’uomo medio italiano (dalle più elevate alle più infime e, non sposta il problema il fatto che nel nostro scrittore le seconde prelevassero di gran lunga sulle prime) a che l’Europa fosse ben bilicata tra le varie forze politiche, senza che l’una predominasse sull’altra. Mentre solo la lotta di Roma contro Lutero tocca un fatto intimo nell’Aretino (le sue opinioni religiose per meglio dire il suo sentimento religioso), la restante parte delle valutazioni politiche che segue i fluidi percorsi dell’equilibrio europeo nel Rinascimento. Allo stato grezzo, come un nudo bisogno dell’esistenza quotidiana, vediamo nell’Aretino l’alternarsi di una forza e dell’altra. E in questo il nostro scrittore riflette una necessità di sopravvivenza dei ceti medi italiani, un mezzo (per quanto infamante) di elementare difesa.

L’Aretino non pensa mai che nei suoi attacchi a quel potentato o a quello Stato ci sia un proposito di offensiva totale, di conquista di un potere. L’Aretino si difende su quello stesso fronte (certo facendo uso dei più proibitivi mezzi guerreschi) su cui si difendeva tutta la media classe italiana, quella che non deteneva il potere per nobiltà di sangue o per potenza di denaro e di milizie. Si direbbe la media borghesia, quella che comprendeva in sè tutti gli artisti del Rinascimento e, non il “popolaccio”; ché l’Aretino, se conservava i più autentici e ricchi motivi della sua bassa nascita, conduceva una vita e viveva in una società che non era affatto popolare.

L’Aretino è il primo uomo pubblico tra gli artisti del Rinascimento che poggi la propria vita su tutta l’Europa. Quando si leggono le sue corrispondenze con l’Imperatore e con il Re di Francia, con la Regina di Svezia e con il Re d’Inghilterra, con il Papa o con i Principi italiani, scorre davanti agli occhi un caso di autorità di un letterato, così come nemmeno Voltaire saprà ripetere. Questa Europa dell’Aretino non è un’ipotesi fittizia, ma è la concreta Europa del Cinquecento, considerata e rivista in tutti i suoi menomi trasalimenti sociali e in tutte le traversie politiche. Lo sguardo dell’Aretino non perde nulla e, tutto è alla portata del suo gioco pratico. Sa tutto e, vede tutto. Pronto a profittare di un lieve passo di una Potenza, ma pronto anche a sacrificare una forte amicizia se dall’abbandono può derivare una maggiore elasticità.

Se, poi, ha l’occhio continuamente rivolto al popolo minuto, se i suoi più carezzati personaggi provengono dai ceti più bassi, anche questo ha una ragione: una ragione che non sia soltanto conseguenza della sua natura d’uomo portata a viver bene con quelli delle sue origini, o relazionata dai generosi scatti del suo umore. Il popolano del Rinascimento non avrà miglior amico e dipintore del nostro scrittore, né alcuna artista (anche tra coloro che sovrastano l’Aretino) realizzerà  più di lui in questo campo. Non è certo un pensiero sociale. E chi l’aveva nel suo tempo? Ma è una passione sociale, nutrita di un profondo senso del reale, di un’accalorata esperienza delle condizioni di una forza sociale ancora “in fieri”. Con quanta compiaciuta benevolenza segue l’Aretino i propri popolani quando tentano di arraffare un bene materiale. E se lo fanno rubando la borsa ai padroni, l’occhiata del nostro scrittore non è meno lieta e incoraggiante.

Però il campo della sua passione sociale è un altro, o meglio si svolge assai più coscientemente che non nei riguardi delle masse piccolo-borghesi e proletarie del Rinascimento. Ed è verso gli scrittori ed artisti come ceto sociale. L’Aretino intende l’essenza sociale dello scrittore, le sue proprie finalità e i suoi interessi nel generale ambito della società  contemporanea, tendente ad uscir fuori dalla vita degli studi, ad entrare nel vivo della vita nazionale e anche europea, a costituirsi n un’unità più organica, con le necessità pratiche non meno erompenti e legittime di quelle di un Principe. Si guardi i consigli che dà ad uno scrittore o ad un pittore. Si sente, oltre che segretario del mondo, segretario delle lettere. Potremmo dire, per celia, che egli è il primo organizzatore sindacale degli artisti e professionisti dell’arte. E, mescolandosi nella massa, egli è uscito fuori dell’immagine umanistica dell’Homo interior .

Tutti i suoi atti di scrittore sono pubblici: rende a tutti nota la propria corrispondenza epistolare, non solo per documentare e rafforzare il prestigio della sua penna, ma per la continua comunicazione che c’è tra lui scrittore e il mondo. Non vi sono memorie intime, non vi sono confessioni che servano di puro sfogo morale, non vi è intento di tener per sé i suoi motivi d’arte: tutto è al di fuori, tratto alla luce perché deve vivere alla luce. Da Petrarca all’Aretino si è prodotto uno iato amplissimo. L’Aretino è il vero Rinascimento tizianesco e raffaellesco: ogni cosa nasce perché stia davanti agli occhi del mondo e vi viva, subito appena creata. Sopra quest’intenzione si potrà ricercare (come si tenterà di fare in appresso) la poetica e il linguaggio dell’Aretino, i quali si formano e si sviluppano non secondo un processo di teorizzazione interiore, ma secondo i modi e le figure della realtà  oggettiva.

Il Rinascimento, d’altro canto, rinviene nella complessità della vita aretinesca elementi e realtà di fatto che trascendono la pura considerazione dell’arte. A differenza di artisti e scrittori di lui tanto più grandi (i suoi pittori veneziani, il conturbante amico Michelangelo, il “divino” Ariosto), il nostro mostra un’adesione al Rinascimento non soltanto per le ragioni dell’arte e del sentimento. Per esse, ma anche per altri motivi. L’ambiente sociale lo relaziona secondo tutte le sue leggi ed, egli agisce al cristallizzarsi di norme sociali con la stessa passionalità, con cui polemizza verso i colleghi di mestiere. Si veda come si spinge avanti nel tempo, rischiando di sopravanzare empiricamente tutti i tentativi conciliatori del Cinquecento, la sua idea del “denaro”, la sua percezione del valore anti-medievale dell’economia. Il valore economico per sé stante. Il desiderio di guadagno che è una forza pari a tutte le altre forze morali e spirituali impossibilitata ad essere sottoposta allo scopo etico della vita.

Per l’Aretino, tra il guadagno e la vita morale non ci sono vie di soluzione. Si tratta di campi remoti. Non si potrebbe chiedere nulla di tutto questo ad un Ariosto a ad un Michelangelo. Il nostro Aretino tende ad interessare campi che non sono più della pura letteratura, così allineato com’è con i più coscienti trattatisti economici del Rinascimento. Un’altra prova di libertà non soltanto infamante, è questa. Ed altre se ne potrebbero trovare in quell’uso cosiddetto della “stampa”, ossia della sua scoperta del potere della carta stampata, tanto che, dal Chalses in poi, si è sempre ritenuto (e a ragione) l’originalità dell’Aretino “giornalista”, dell’Aretino cronista spavaldo della vita pubblica e privata. Immagine suggestiva cui lo stesso Aretino credette, allorché scriveva al Marchese di Mantova: “La stampa mi premierà e, non i Principi”. Vostra Elena P.

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